La Storia dell’architettura 1905-2008 Di Luigi Prestinenza Puglisi



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3.6 Aldo Rossi e la Tendenza


Aldo Rossi si forma nel clima della Casabella-continuità diretta da Rogers, facendosi notare per un approccio culturale, in linea con le posizioni neostoriciste degli altri giovani della redazione, fortemente critico verso lo stile internazionale, l’architettura organica o le tensioni neoespressioniste. Le opere di Adolf Loos, Étienne-Louis Boullée e degli architetti del Novecento Italiano esercitano su di lui una forte attrazione, predisponendolo verso le forme elementari di forte effetto plastico. Lo si vede nel progetto del 1962 per un monumento alla Resistenza a Cuneo realizzato con un cubo tagliato dalla sola scalinata che serve per accedere al suo interno e da una stretta e lunga fessura ubicata sul lato opposto oppure dal monumento dei Partigiani a Segrate del 1965, una struttura in cemento composta da un prisma rettangolare e da un cilindro, tra loro collegati da un prisma triangolare che allude alla figura archetipica del tetto e, insieme, del timpano del tempio greco.

A stemperare una altrimenti intollerabile monumentalità , generata dalla composizione rigorosamente simmetrica e stereometrica di figure astratte e fortemente evocative, provvede l’elementarità del loro montaggio che ricorda le costruzioni in legno dei giochi dei bambini. Da qui un’aria trasognata con composizioni urbane che sembrano la trasposizione tridimensionale dei quadri di Giorgio de Chirico. Di sapore metafisico sono anche i numerosi disegni. Costituiscono una attività complementare a quella di progettista che contribuisce a lanciare il così detto fenomeno dell’architettura disegnata che coinvolgerà tutta una generazione d’architetti, affascinati dalla possibilità di scappare dalle rigide costrizioni del mercato edilizio, per realizzare un mondo parallelo, fatto di immagini destinate a rimanere sulla carta.

Tra il 1969 e il 1973 Rossi realizza il suo capolavoro: il complesso residenziale di Monte Amiata all’interno del quartiere Gallaratese 2. L’edificio– diversamente dall’esuberante stecca abitativa realizzata accanto da Carlo Aymonino- nulla concede alle esigenze psicologiche degli abitanti. Riprende, con un evidente compiacimento intellettualistico, gli etimi dell’architettura funzionalista e le rigide forme del razionalismo italiano del Ventennio, ha l’aria delle Cardboard Architecture dei Five (così chiamate perché sembrano plastici in scala al vero realizzati col cartoncino), rammenta i fondali dechirichiani delle Piazze d’Italia. Tra il 1972 e il 1976 Rossi realizza la scuola di Fagnano Olona, un edificio simmetrico a doppio pettine nel cui centro si trova una corte che, a sua volta, contiene l’edificio circolare della biblioteca. Ricorda gli edifici dell’ottocento, rigidi come prigioni ma con un fascino sia pure severo da libro Cuore. Tra il 1971 e il 1978, con Gianni Braghieri, costruisce il cimitero di Modena concependolo come una città metafisica pensata per i defunti.

Non privi di un loro appeal, forse dovuto al bisogno storicamente ricorrente di richiami all’ordine dopo fasi di espansione creativa, i progetti di Rossi spaccano in due la cultura architettonica. Da un lato li si accusa di trascinare indietro l’architettura italiana, riportandola al monumentalismo e al classicismo fascista : e' la posizione di Bruno Zevi. Dall’altro li si vede – grazie anche all’esegesi di Manfredo Tafuri- come opere esemplari per ricentrare la progettazione sull’autonomia del linguaggio e sulla costruzione logica della città. Autonomia del linguaggio perché l’architettura rossiana appare – non diversamente da quella di Eisenman- come un testo composto da parole che non si costruiscono a partire dall’esterno ma riprese dall’interno della disciplina e cioè dalla tradizione della storia dell’architettura. Costruzione logica della città perché – e questo e' il senso principale del libro L’architettura della città pubblicato da Rossi nel 1966- questi edifici piuttosto che porsi come la negazione delle configurazioni urbane consegnateci dalla tradizione ne vogliono essere la continuazione, il logico sviluppo. Da qui un atteggiamento operativo che trova i suoi strumenti nella tipologia edilizia e nella morfologia urbana. Ragionare per tipi edilizi consente infatti di operare per modelli, testati dalla tradizione e dotati di un loro senso e di una loro autonomia. Operare in accordo con la morfologia urbana, e cioè con la concreta forma della città, serve a evitare l’approccio avanguardista della tabula-rasa con un processo di ascolto del contesto e di modifica e messa a punto, in funzione del loro corretto inserimento, degli stessi tipi edilizi. Il disegno, La città analoga del 1976, dove sono montati brani di città diverse in un collage piranesiano rivisto con una sensibilità che deve qualcosa alla pop art, fissa con una immagine poetica il senso di tale approccio.

Ispirato alla poetica di Aldo Rossi e' il percorso di numerosi architetti più giovani che negli stessi anni lavorano su questi temi. Si riconosceranno sotto la sigla della Tendenza. A Roma, dove la Tendenza sarà particolarmente attiva, Renato Nicolini, Franco Accasto, Vanna Fraticelli, Franco Purini, Francesco Cellini, Claudio D’Amato avranno il loro punto di riferimento nella rivista romana Controspazio, nata nel 1969 e diretta da Paolo Portoghesi e, più tardi, nella galleria Architettura Arte Moderna (AAM) di Francesco Moschini.

3.7 Post Modern


Il fenomeno del Post-Modern è lanciato nel 1975 dal critico di architettura Charles Jencks mentre, a partire dal 1976, la parola è utilizzata con crescente frequenza anche in altri campi per esprimere un atteggiamento di continuità e, insieme, di rottura rispetto alla cultura moderna così come si è sviluppata in occidente a partire dai primi anni del novecento. Nel 1977 Jencks pubblica The Language of Post-Modern Architecture. Tradotto in numerose lingue e oggetto di continue riedizioni, il libro e' insieme un brillante pamphlet contro l’architettura internazionalista e un manifesto per un nuovo stile. Jencks ne trova le origini in un episodio emblematico avvenuto il giorno 15 luglio 1972 quando, con una carica di dinamite, le autorità cittadine decidono di abbattere gli edifici dell’insediamento di Pruitt-Igoe a Saint Louis disegnati dall’architetto Minoru Yamasaki. Sono corpi a ballatoio, alti oltre dieci piani, realizzati tra il 1952 e il 1955 secondo i principi del Movimento Moderno. Premiati nel 1951 dall’American Institute of Architects, si erano rivelati, alla prova dei fatti, un fallimento. Poco amati dalla popolazione di colore che li abitava, erano diventati spazi di nessuno, luoghi pericolosi oggetto di continui atti vandalici, costituendo l’ennesima prova che le teorie sull’habitat, lanciate dai CIAM e fatte proprie da Yamasaki, sono vittime di un errore di fondo: essere troppo astratte e velleitarie perché viziate dall’imperativo dell’invenzione formale a tutti i costi, indipendentemente dai gusti e dalle preferenze dell’utenza.

Di edifici come quelli di Pruitt-Igoe, sostiene Jencks, le periferie delle nostre città sono piene. Testimoniano il fallimento di una ideologia fondata su principi astratti e meccanici, che, anche nelle sue manifestazioni più raffinate, produce architetture fredde e senza vita. Come mostra per esempio il campus della ITT progettato da Mies van der Rohe dove addirittura la cappella destinata alle funzioni religiose rassomiglia al locale della centrale termica e viceversa.



Rispetto a questo tipo di approccio, formalista e elitario, il Post Modern, prende le distanze, proponendo di lavorare, più che sulla discontinuità, sulla continuità. Ciò avviene su due livelli. Uno funzionale, che, ispirandosi al passato, punta a privilegiare l’individuo rispetto allo standard. Uno linguistico che rifugge dall’uso esclusivo di codici dell’avanguardia: ermetici, ultraraffinati e apprezzati solo dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori. Ritorno dunque, all’architettura vernacolare e spontanea? No di certo, continua Jencks, piuttosto un approccio basato sul double coding, cioè su un atteggiamento che punta a produrre opere in grado di comunicare sia a un livello elementare che a uno più profondo. Affinché ciò avvenga, occorre, continua Jencks, che gli architetti non abbiano paura di riprendere il linguaggio consolidato degli stili storici del passato, fatto di ornamenti ma anche di colonne, timpani, modanature e amato dall’uomo della strada, combinandolo con stilemi più contemporanei all’interno di un discorso manierista per giocare, come ha indicato Venturi nel suo testo del 1966, sulla complessità e sulle contraddizioni della disciplina. Fine quindi del minimalismo e dell’International Style e ripresa di una tradizione che ha il suo antecedente in Gaudì ma riconosce i propri precursori nella tradizione dello storicismo moderno ( dal neo-liberty a Venturi), del revivalismo ( da Diseyland a Lapidus), del neovernacolare ( da Erskine a van Eyck), degli studiosi della storia della città ( da Ungers a Stirling a Rossi), dei neo-organici ( da Scharoun a Pietila e Saarinen) e degli architetti dello spazio postmoderno ( da Aalto a Scharoun, da Graves a Moore). Il risultato – lo si capisce già in questa pittoresca divisione in categorie - e' un minestrone dove e' ammesso il tutto e il suo contrario. Così nelle pagine del libro scorrono le illustrazioni dell’edificio della Rinascente di Albini e Helg accanto a quelle della casa Baldi di Portoghesi e Gigliotti e dell’Highpoint II di Lubetkin e Tecton. Ci sono le case di Venturi, il cimitero di Modena di Aldo Rossi e lo stand a forma di hot dog. Ci sono i Medical Faculty Buildings di Lucien Kroll, il complesso Byker di Erskine e le immagini del letto dell’Agente 007. E poi la Bavinger House di Bruce Goff e la House VI di Eisenman. Insomma, se questa e' la libertà dalle costrizioni del Movimento Moderno, il prezzo che sembra doversi pagare per acquistarla e' la riduzione della sua tradizione, fatta anche di momenti antagonisti ma vitali, a un eclettico e snervato repertorio di immagini, diverse ma sostanzialmente equivalenti, da poter consumare con facilità e disinvoltura.




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