3.6 L’esposizione del Werkbund del 1914
La prima importante uscita internazionale del Werkbund è fissata per il luglio 1914 a Colonia e programmata sin dal 1911, subito dopo il successo della mostra del 1910 sul cemento, cui si era recato anche il giovane Le Corbusier di passaggio per la Germania.
Tra i numerosi architetti invitati a realizzare opere dimostrative per gli oltre 100 padiglioni, vi sono Peter Behrens, Alfred Fisker, Henry van de Velde, Bruno Taut e Walter Gropius. Emergono non poche divergenze, di temperamento e cultura. Soprattutto tra conservatori e innovatori. Lo capiamo dalla chiusura dell’esposizione alle avanguardie cubiste e futuriste la cui presenza viene giudicata dannosa e dalla caotica diversità degli stili dei padiglioni: moderni, romantici, neobarocchi, classicisti, biedermeier...
Lo scontro, ormai non più differibile, avviene in occasione del congresso annuale che si svolge in contemporanea nella stessa città. L’occasione è fornita da dieci tesi, distribuite da Muthesius una settimana prima dell’apertura. Vi sono riassunte le linee direttrici per il futuro del Werkbund: priorità per forme standardizzate e tipizzate, lavoro di gruppo, produzione di massa, sospetto per la ricerca artistica e per il suo desiderio d’inventare forme nuove, invito a perfezionare quelle esistenti, rifiuto dell’imitazione degli stili del passato. Scatenano l’opposizione del gruppo degli artisti, capeggiati da van de Velde, i quali vedono il pericolo che, attraverso un richiamo all’ordine e alla produttività, si celi il desiderio della vecchia guardia di sbarazzarsi degli elementi creativamente più innovativi.
Con van de Velde si schierano Poelzig, direttore dell’Accademia di Belle Arti di Breslau, che minaccia di dimettersi dall’associazione e i più giovani, che vedono in questo scontro tra cinquantenni (Muthesius ha 53 anni e van de Velde 51), un’occasione per liberare l’associazione dal dominio della vecchia guardia. Bruno Taut propone di nominare van de Velde e Poelzig dittatori artistici. Gropius si schiera apertamente con van de Velde.
Con discreta abilità, Muthesius riesce a raggiungere una posizione di compromesso e a non spaccare l’associazione. “La direzione del Werkbund e l’opposizione”, afferma Joan Campbell, “rifiutarono entrambi di scegliere tra arte e industria, tra creatività e produzione di serie. Entrambi le fazioni speravano invece che il Werkbund potesse conciliare gli opposti e fonderli in una sintesi superiore.”
Come abbiamo accennato, i tre esponenti di spicco dell’ala creativa, van de Velde, Gropius e Taut, partecipano all’esposizione rispettivamente con un teatro, una fabbrica e un padiglione. Le tre opere, nonostante nessuna sia un capolavoro, mettono sul tappeto numerosi temi di riflessione per la successiva ricerca figurativa. Tra questi: la dinamica del volume, la scomposizione per piani, la trasparenza.
Il teatro, rispetto alle precedenti opere di van de Velde, è una struttura semplificata non priva di valenze espressioniste. Rappresenta il tentativo di passare dal capriccio della linea alla razionalità del volume senza perdere tensione ed energia e acquistando in monumentalità e storicità. L’edificio non ha però la forza che, per esempio, caratterizzerà l’intensa dinamica espressiva delle più tarde opere di Mendelsohn. Ma è una struttura importante, di cui van de Velde, non senza una punta autocelebrativa, ricorderà l’influenza “nello sviluppo della nuova architettura promosso dalle avanguardie belga, olandese, francese e tedesca”.
La fabbrica con uffici di Gropius e Meyer combina suggestioni di varia natura. Piani a sbalzo ripresi dal lessico wrightiano, elementi stereometrici behrensiani e un’originale ricerca in direzione della leggerezza e della capacità di smaterializzazione del vetro. È un pasticcio stilistico, di temi ancora giustapposti, la cui fertilità si rivelerà solo nei lavori successivi e in particolare nell’edificio del Bauhaus del 1923-26.
Del tutto inconsueto, per voglia assoluta di trasparenza, è il padiglione del vetro di Bruno Taut. Abbiamo già notato come vi siano strette attinenze tra la poetica dell’architetto tedesco e la Glasarchitektur di Paul Scheerbart. Nel padiglione il richiamo è esplicito e frasi del poeta si intervallano ai partiti architettonici: “La luce vuole il cristallo”, “Il vetro porta con sé una nuova epoca”, “Siamo rattristati dalla cultura del mattone”, “Il vetro colorato elimina l’odio”, “L’edificio di mattoni ci danneggia”. Il padiglione, però, non è privo di retorica monumentale ed è di scarso interesse volumetrico: una cupola a forma di semilimone, vagamente goticizzante, con all’interno i gradoni delle scale rigorosamente assiali e simmetrici.
Il tema della luce sarà ripreso con maggiore forza in due pubblicazioni del dopoguerra – Die Stadtkrone (La corona della città) e Alpine Architektur (Architettura alpina), entrambi del 1919 – e in numerosi disegni fortemente evocativi. Bruno Taut non è un architetto particolarmente dotato, in grado di realizzare edifici memorabili, piuttosto un infaticabile animatore di proposte e attività culturali. Intuisce che la città contemporanea deve avere un rapporto diverso con la natura e il paesaggio, tanto da diventare, sin dai primi anni dieci, uno dei più accaniti animatori del programma delle città giardino. Rivendica il ruolo dei nuovi materiali per liberare i cittadini dalle città di pietra. Riprende la tradizione gotica ed espressiva tedesca, ma senza cadere nel linguaggio stereotipato delle forme tradizionali. Nel dopoguerra, insieme con Gropius, sarà organizzatore di una mostra per lanciare i giovani talenti, inventerà una catena di lettere (la catena di vetro) su temi di architettura che passerà tra le mani dei più rilevanti architetti – espressionisti e non – del momento e costituisce uno dei documenti più interessanti del dibattito dell’epoca e, infine, sarà impegnato nei grandi interventi di edilizia abitativa, cercando di applicare standardizzazione e catena di montaggio, ma senza dimenticare le relazioni tra l’architettura, il paesaggio e il corpo.
L’esposizione di Colonia, apertasi in luglio, è bruscamente interrotta dallo scoppio della guerra nell’agosto del 1914. La Francia, l’Italia, la Russia, gli Usa da un lato, e l’Austria e la Germania dall’altro, che avevano lottato sino ad allora per il predominio artistico, intrecciando fruttuosamente rivalità, collaborazione e competizione intellettuale, si trovano a fronteggiarsi nella prima guerra meccanica della storia dell’umanità, nella più penosa carneficina mai vista. Sarà però proprio durante il corso della guerra, quando molti artisti e filosofi vivono disperati in preda ai loro esaurimenti nervosi (Ernst Ludwig Kirchner, Aby Warburg, Ludwig Wittgenstein, Louis-Ferdinand Céline, per ricordarne quattro famosissimi) che cominceranno a intravedersi nuove direzioni per il pensiero e per la ricerca artistica. Le esamineremo brevemente nel prossimo capitolo.
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