Italian Bookshelf
Edited by Dino S. Cervigni and Anne Tordi with the collaboration of
Norma Bouchard, Paolo Cherchi, Gustavo Costa, Albert N. Mancini,
Massimo Maggiari, and John P. Welle.
Augusto Fraschetti (a cura di). Roman Women. Traduzione di Linda Lappin. Chicago: U of Chicago P, 2001. Pp. 237.
Il volume è la traduzione dall’originale “Roma al femminile” (Bari: Laterza, 1994), ultimo esponente di una collana dedicata alle biografie di celebri donne della storia, che comprende altri quattro saggi riguardanti rispettivamente il mondo greco, il Medioevo, il Rinascimento e il Barocco. Si tratta in tutti i casi di raccolte di vari contributi, precedute da un’introduzione generale del curatore. Nel volume in esame, l’intera storia di Roma, dalla repubblica al tardo impero, viene ripercorsa attraverso l’attenta e minuziosa analisi di alcuni personaggi femminili di rilievo: la vestale Claudia, protagonista del prodigio legato alla traslazione della dea Cibele a Roma, la nobile Cornelia, madre dei Gracchi, Fulvia e Licoride, rispettivamente moglie legittima e concubina del celebre Marco Antonio, Livia, moglie dell’imperatore Augusto, Perpetua, la cristiana che narrò il proprio martirio, Elena, madre dell’imperatore Costantino, Ipazia, filosofa vittima dell’intolleranza dei cristiani di Alessandria e infine Melania, la ricca matrona che volle farsi santa.
Nell’ambito degli studi sulla storia delle donne in Occidente, con particolare riguardo al mondo antico, il volume di Fraschetti si pone con una nuova impostazione: non più generica indagine sulla condizione femminile nell’antichità, ampiamente indagata a partire dagli anni ’70 sull’onda del movimento femminista, ma tentativo di costruire una vera e propria “prosopografia al femminile” secondo i metodi e i principi dell’indagine storica attuale, liberando il campo dai pregiudizi e dagli elementi leggendari che hanno accompagnato per secoli alcune celebri donne del passato.
L’introduzione generale di Augusto Fraschetti, rinnovata rispetto a quella dell’edizione italiana, rileva chiaramente le difficoltà di tale operazione e la stessa scelta di donne celebri ne costituisce la conseguenza più evidente. Storicamente le donne furono sempre condannate al silenzio. Nel mondo romano, in particolare, era considerato sconveniente per una donna rispettabile essere oggetto di una notorietà che oltrepassasse le mura domestiche e il ricordo dei congiunti. Le centinaia di stele funerarie, le pitture, gli oggetti muliebri restituiti dagli scavi archeologici sono quasi sempre testimonianze mute di vite per noi irrimediabilmente perdute. Attraverso fonti archeologiche e letterarie, di queste donne possiamo soltanto ricostruire la giornata-tipo, dedicata all’assolvimento di mansioni domestiche, o tuttalpiù l’articolarsi delle varie fasi della vita, col passaggio dallo status di puella a quello di uxor e di matrona. Si avverte ovviamente l’estrema genericità di queste nozioni. Di singole donne romane e delle loro vicende biografiche si parlò esclusivamente nella misura in cui la loro vita si legò a quella di uomini celebri dell’antichità, sorte che, soprattutto nell’età più antica, toccava a ricche esponenti dell’aristocrazia. Tuttavia, anche in questo caso, per le prime fasi della repubblica, più che con vere e proprie biografie, ci dobbiamo confrontare con degli exempla, con figure paradigmatiche, divenute simboli viventi di virtù femminili. È questo il caso di Claudia, la cui identità fu addirittura confusa dalle fonti fra due rappresentanti della nobile gens Claudia, una matrona e una vestale. Ed è anche il caso della celeberrima Cornelia, figlia di Scipione l’Africano e madre di Tiberio e Caio Gracco: la sua figura, per quanto nota, è costruita attraverso alcuni aneddotti paradigmatici che ne fanno una sorta di monumento alla pudicitia, la cui vicenda personale va faticosamente ricavata per deduzione, cercando di superare la staticità monolitica a cui le fonti l’hanno condannata.
Tra la fine della repubblica e il primo impero le cose cambiarono: il gioco politico, con la sua rete di obblighi, favori e amicizie permise ad alcune esponenti dell’aristocrazia romana di essere personaggi della storia tout court e non soltanto della storia delle donne. È il caso di figure femminili che ebbero un’ingerenza diretta sugli affari pubblici, come Fulvia e Livia, ma che, proprio per questo, condivisero il giudizio negativo degli antichi e di alcuni moderni, passando alla storia l’una come avida e crudele, l’altra come abile avvelenatrice. In questo stesso clima approdò alla storia anche una figura come Licoride, attrice-cortigiana che deve la propria fama, non certamente lusinghiera, ai celebri amanti a cui si accompagnò: Bruto, Marco Antonio e Cornelio Gallo, che la cantò col nome di Citeride.
L’avvento del Cristianesimo, almeno nelle sue fasi iniziali, creò nuove figure e nuovi spazi anche per le donne: nascono le martiri e le sante, nasce l’agiografia, che, aldilà degli intenti celebrativi, registra con una certa precisione alcune biografie femminili. È il caso di Perpetua, che, in modo del tutto eccezionale, narra in prima persona gli eventi che precedettero il suo martirio, o di Melania, il cui carattere ostinato e esibizionista, pur nella autenticità della vocazione, emerge con chiarezza ben oltre gli intenti del suo biografo ufficiale. Il Cristianesimo modifica anche la fama delle donne di potere: la conversione dell’imperatrice Elena mise rapidamente a tacere alcune notizie non particolarmente onorevoli, quali le umili origini di locandiera o il sospetto di avere deciso la morte della nuora e l’esilio dei figliastri. Qualche secolo prima la sua figura sarebbe rientrata a pieno titolo nel cliché dell’imperatrice protagonista di intrighi di corte; le fonti cristiane ne fecero soprattutto la venerabile madre di Costantino, alla quale si attribuì il (falso) ritrovamento della vera croce.
Interessante infine il caso di una martire pagana, Ipazia, insegnante di filosofia presso Alessandria d’Egitto, erede della scuola di Plotino, barbaramente uccisa dai cristiani e screditata dalle fonti, fino alla sua totale riabilitazione da parte del pensiero laico e illuminista. Ancora una volta, una rigorosa indagine storica fa giustizia delle mistificazioni che si sono avvicendate nel tempo, ridefinendo il ruolo storico di una figura che fu vittima, anche dopo la morte, della propria eccezionalità.
L’impostazione scientifica e filologica dell’opera non sottrae fascino ai personaggi, che anzi ne esce rafforzato, rendendo la lettura un approfondimento tanto necessario quanto godibile nello studio dell’antichità. Sullo sfondo di queste biografie, si svolge l’intera vicenda di Roma, quella della storia ufficiale e quella della storia privata, che possiamo soltanto immaginare. Volendo fare un bilancio, come si può definire la figura della donna a Roma? Come rileva lo stesso Fraschetti, tanto si è scritto sull’argomento, giungendo a conclusioni diametralmente opposte, a seconda delle fonti a cui si accorda la priorità. Occorre inoltre tenere conto del fatto che la condizione della donna conobbe una certa evoluzione attraverso i secoli, come il testo in esame dimostra ampiamente. L’autore ritiene possibile una valutazione soltanto in relazione alle altre civiltà del Mediterraneo, quali quella greca e quella italica, etrusca in particolare. In tale sede, soprattutto in previsione di un’opera rivolta ad un pubblico non esclusivamente specialistico, sarebbe forse stato opportuno qualche ulteriore chiarimento sulla condizione della donna greca e, ancora di più, su quella della donna etrusca, considerando la rilevanza che le viene riservata dallo stesso autore, magari facendo riferimento ai cataloghi delle mostre più recenti . Il pericolo di fraintendimenti è sempre in agguato e il cliché di una donna etrusca libera ed emancipata rischia di essere ancora in voga presso l’opinione pubblica, nonostante gli studi dell’ultimo ventennio abbiano cercato di distinguere fra gli elementi a nostra disposizione e i pregiudizi degli antichi. Certo, leggendo il volume di Fraschetti, non si può che rimpiangere ancora di più la perdita di fonti letterarie etrusche e italiche e gli innumerevoli ritratti mancati, di cui possiamo cogliere il riflesso soltanto nei corredi funerari.
Carlotta Bendi, Università degli Studi di Bologna
Gigetta Dalli Regoli. Il gesto e la mano. Convenzione e invenzione nel linguaggio figurativo fra Medioevo e Rinascimento. Firenze: Olschki, 2000. Pp. 82.
La Santa Lucia di Michele Agnolo di Pietro sulla copertina di questo volume agisce da peritesto a questo studio della Dalli Regoli in cui illustrazioni e commenti si rimandano reciprocamente, intessendo un unicum organico e compatto. Stimolato dall’illustrazione in copertina, il lettore viene subito invitato a scorrere le numerose tavole in fondo al volume per poi iniziare, tramite il sussidio della introduzione e dei cinque capitoli che vanno a comporre il testo-commento, il viaggio di scoperta nell’iconografia caratterizzata dalla presenza della mano e del suo rapporto con gli altri elementi del quadro. La mano assume una varietà di funzioni e di posizioni che ne determinano la importanza vis-à-vis il resto del corpo e le altre componenti dell’opera; come dice, giustamente, la Dalli Regoli, la mano “offre o afferra, colpisce o accarezza, solleva o depone, e inoltre accoglie, indica, richiama, respinge, oppure evidenzia inerzia e sospensione di movimento, e con tutto ciò contribuisce in modo determinante alla comunicazione” (9). La studiosa circoscrive la disamina al binomio gesto-mano, gesto-braccio; nella prima parte dell’introduzione vengono esaminati, in ordine cronologico, alcuni dei più significativi trattati attinenti al linguaggio visivo: dal Libro dell’arte del Cennini di fine Trecento agli studi del Della Porta e di altri Seicentisti. Da questa panoramica si evincono i parametri che sottendono i capitoli che seguono: “la rappresentazione del gesto filtrata attraverso l’interpretazione dell’artista, nonché [il] rapporto tra gestualità e contesto” (22).
I titoli dei capitoli che seguono indicano la tematica che vi sarà illustrata con dovizia di esempi; dal primo, “Nodi di mani: incontri e scontri, raccoglimento, preghiera, pianto”, si vogliono selezionare due opere. I Mori del Monumento di Pietro Tacca (Livorno, 1615-30, figg. 41, 42), giganti le cui mani sono incatenate dietro la schiena, sono una vivida e impressionante testimonianza di come le mani stanno a raffigurare la prigionia e come il rapporto tra le mani e la muscolatura dei corpi sta a indicare lo sforzo che imprimono alle catene nel vano tentativo di spezzarle. L’autore ha inciso per quattro volte la propria firma sul podio su cui si trovano i Mori, quasi a ribadire la sua dichiarazione, da artista e da cittadino, dei principi di libertà simboleggiati dalla statua. Ad esemplificare il pianto, l’affetto, il cordoglio che collegano i vari attanti in una serie di quadri dal tema religioso, basti ricordare due opere di Giovanni Bellini: la Pietà di Brera (1460-65) e quella della Pinacoteca Vaticana (1465-70). L’intreccio di mani porta lo sguardo a soffermarsi prima su di esse e poi sui personaggi presenti: nel primo caso le mani, squarciate dai chiodi, sono messe in risalto da quelle vive che sorreggono il corpo del Cristo (fig. 27), mentre nel secondo la mancanza di visibili ferite sulle mani invita, in una spirale ascendente, a soffermarsi prima sulla ferita del costato e poi sull’espressione di dolore del Cristo deposto. Alquanto differente è la casistica del capitolo intitolato “L’atto di sorreggere, mostrare, offrire” in cui la serenità e pacatezza dei temi rappresentati può essere simboleggiata dalla Madonna con S. Anna del Masaccio (1424-25, fig. 54) dove le mani tengono in una posizione di primo piano il figlio paffutello che comunica il suo rapporto con la madre appoggiando la manina sinistra sul braccio destro della Madonna mentre la destra è alzata in segno di benedizione ma anche di gentile comando.
Il capitolo dal titolo “La mano e il libro” è anticipato dagli esempi che si trovano in quello precedente intitolato “La mano enfatizzata”; qui troviamo — oltre al famoso Giovane con medaglione di Sandro Botticelli (fig. 87) — due quadri di Carlo Crivelli in cui il libro occupa la parte centrale. Nel primo (fig. 96) il libro è tenuto da una sola mano, quella sinistra, le cui dita (specie l’indice e il medio) afferrano il volume e lo stringono al petto con forza; simultaneamente la destra descrive, tramite l’apertura enfatizzata della mano (come si fa quando si gioca alla morra), un gesto che porta lo sguardo ad alzarsi e posarsi sulla mano sinistra e da qui sul viso del lettore rivolto verso l’alto. Alquanto diversa è l’atmosfera del secondo quadro (fig. 97) in cui un chierico si concentra su un libro tenuto aperto da ambedue le mani; in questo quadro regna la pace e la tranquillità. Dalli Regoli introduce questo capitolo sulla mano e il libro con una attenta precisazione tematica a distinguere tra il Medioevo, quando il libro in questione è solitamente un codice di proporzioni medio-grandi che richiama i volumi della Sacra Scrittura, e i secoli successivi quando “il libriccino che sta in mano è soprattutto il libro di ore privato, e dunque evoca la preghiera, la devozione, il rispetto della parola divina” (51); basti qui ricordare l’Annunciazione di Simone Martini (figg. 106, 107). In quest’opera il corpo di Maria è quasi totalmente nascosto dai drappi della veste ma la mano sinistra è scoperta e trattiene un volumetto; tra le pagine di questo ha inserito il pollice a uso di segna-libro. Simile è la funzione della mano nella Madonna Alba di Raffaello (fig. 108). Ma la mano ‘segna-libro’ viene dipinta anche per segnalare la presenza di testi non sacri; per esempio, nel ritratto di Ugolino Martelli del Bronzino il personaggio raffigurato segue con un dito il testo dell’Iliade mentre con l’altra mano sorregge un libro del Bembo (fig. 120); e, sempre del Bronzino, è il ritratto della poetessa Laura Battiferri (fig. 121) che indica con una mano dalle dita lunghe e affusolate un sonetto del Petrarca.
Nell’ultimo capitolo, “Il braccio e la mano”, Dalli Regoli passa in rassegna alcuni quadri in cui il personaggio alza il braccio per attirare su di sé l’attenzione. Fra le soluzioni più rappresentative di tema religioso si ricorda la Deposizione nel sepolcro (fig. 133) del Mantegna dove la Madonna è raffigurata con le braccia tese in aria e le palme delle mani rivolte al cielo mentre tra quelle profane si segnala Storie di Venere (fig. 137) di un collaboratore di Lorenzo di Credi dove la posizione delle mani ha due funzioni: una vicina al corpo, a protezione del seno destro, mentre la sinistra vuole allontanare con tutto il braccio l’avvicinarsi di Eros. Con queste ed altre osservazioni sulle varianti del tema del braccio e della mano nell’opera di un gran numero di artisti, si chiude questo attraente volume della Dalli Regoli. Il volume è corredato di una ricca e aggiornata bibliografia e di un indice di nomi che facilita la consultazione dei passi relativi agli autori citati e, indi, delle tavole fuori testo.
Bruno Ferraro, University of Auckland
L. Scorrano, Il Dante “fascista”. Saggi, letture, note dantesche, Ravenna, Longo, 2001.
Il volume raccoglie una serie sostanzialmente omogenea di contributi saggistici dedicati alla storia della interpretazione dantesca, secondo una duplice ma complementare e contigua direttiva di ricerca. La serie di letture dantesche “istituzionali”, con scoperti fini divulgativi ma corredate anche da approfondimenti critici e nuove prospettive teoriche (cfr. ‘Inferno’ XIII: un orizzonte di negazione 9-28; Dall’abbandono alla bontà riconquistata (‘Purgatorio’ III), 29-50; «per aquella valor». Il canto XXVI del ‘Purgatorio’ 51-68) viene avvicendata — previo un intervento di transizione oculatamente inserito a fungere da diaframma tra le due sezioni distinte dell’opera e riguardante la libera reinterpretazione e riscrittura letteraria del poema nell’autobiografia di Cellini (cfr. «Gli ha letto Dante». Occasioni dantesche nella ‘Vita’ del Cellini, 68-88) — da una batteria di saggi dedicati alla intertestualità dantesca nella letteratura italiana novecentesca, che si riconduce alle precedenti pubblicazioni dell’autore relative alla presenza retorica e lessicologica del vocabolario della Commedia e delle altre opere dell’Alighieri nel linguaggio critico e letterario e nel costume culturale contemporaneo: basti citare a titolo esemplificativo Presenza verbale di Dante nella letteratura italiana del Novecento (1994) e Tra il “banco” e “l’alte rote”. Letture e note dantesche (1996).
Scorrendo i titoli dei capitoli dedicati alla risonanza del repertorio semantico, filosofico e poetico dantesco nel secolo scorso, passiamo in rassegna in via prioritaria Il Dante “fascista”, saggio che ovviamente ispira il titolo del volume, per ovvie ragioni di carattere editoriale dovute alla valenza etico-politica centrale del contrasto tra il padre della letteratura universale, artefice di un disegno teologico e cosmologico di portata antropologica soprannazionale ed ecumenica e fautore di una concezione organica ed unitaria del sapere enciclopedico globale, e la perentoria svolta nazionalistica ed autarchica, angustamente campanilistica, imposta dai commentatori danteschi politicizzati ed indottrinati di assolutismo ideologico nella celebrazione ridondante ed unilaterale della sua figura civile di imperterrito difensore della tradizione culturale italiana (89-125). Scorrano ricostruisce abilmente le fila logiche e strategiche di questa strombazzante distorsione interpretativa, ostentatamente antistorica e filologicamente inconsistente, condotta all’insegna della più sfacciata e forzata destoricizzazione del pensiero filosofico dantesco, sovrapposto nel contraffatto immaginario simbolico della informazione ufficiale ai fermenti nazionalistico-imperialistici mutuati dalla eredità risorgimentale e manipolato in vista della preordinata, cieca e totale fascisticizzazione del creatore dell’ineffabile ed indecifrabile mito figurale del veltro. La deliberata strumentalizzazione ideologica di questo passo cruciale per l’esegesi della Commedia degenera persino nelle artificiose e incongrue patenti di precursore dell’imperialismo e di preconizzatore legittimante dell’avvento hitleriano, fabbricate artatamente e fraudolentemente dalla monolitica e centripeta macchina propagandistica del regime.
Si succedono quindi in linea di continuità tematica e prospettica Dantismo ‘trasversale’ di Sereni (127-67); Luca Mansi quasi Bonconte, sulla ascendenza morfologica letteraria dantesca di un personaggio di Moravia (168-80); Dante, Piovene e ‘Le stelle fredde’, unico inedito della silloge, (181-96); Microdramma “dantesco” in un romanzo di Alberto Bevilacqua, eletto a epigrafica ma pregnante nota conclusiva e investito di una plusvalenza quasi emblematica dell’intero percorso esegetico itinerante (197-201).
Scorrano rimane fedele all’indicazione metodologica basilare che consiste nel ricercare, registrare e ordinare, secondo la teoria della ricezione comparata nella sua doppia diramazione diacronica e sincronica, le tracce della sterminata e plurisecolare odissea intertestuale e metatestuale toccata al monumentum letterario per eccellenza. Vale la pena di citare la premessa dell’autore che sintetizza tutto il suo modus operandi anticonvenzionale e scettico rispetto alle dottrine interpretative tradizionali, pretenziose e totalizzanti rispetto alla polisemia illimitata insita nell’architesto letterario per eccellenza del canone occidentale: “La ‘Lectura Dantis’, se la si consideri fuori da irrigidimenti istituzionali o da configurazioni di un liturgismo ripetitivo e la si guardi invece come una delle più libere flessibili forme di accostamento al testo del poeta, si configura non vincolata dalle strettoie di un ‘genere’ particolare ma aperta a un’ariosa frequentazione del testo, sicché in essa si possono scegliere percorsi differenti e praticare modi di approccio ciascuno in sé plausibile e tutti insieme concorrenti a una fervida esplorazione della pagina dantesca. […] Oggi che nuovi modi della lettura s’impongono o, solo, si propongono è possibile scorgere con chiarezza quanto giovi quella libertà di trattamento e a consentire al lettore di utilizzare una sua particolare chiave d’accesso al testo di cui voglia proporre un’interpretazione globale o solo illuminare alcuni caratteri”. (7).
Con questa misura metodologica duttile e disponibile a slittare dall’esegesi testuale all’accertamento delle molteplici filiazioni storico-culturali di un testo irriducibile ad una prospettiva interpretativa univoca, Scorrano evidenzia sempre più dichiaratamente il disegno metaletterario e metacritico ad un tempo, già parzialmente perseguito nelle altre tappe saggistiche, che guida l’accostamento aggiornato e indipendente alle problematiche suggestive e attuali evocate dalla fisionomia archetipica del capolavoro letterario per antonomasia. Lo studioso stigmatizza l’angusta dimensione accademica della tradizione critica, spesso conservatrice ed inerte, e si adopera per liberare nuove potenzialità semantiche inesplorate dell’universo poetico dantesco, che risaltano più nitidamente attraverso un confronto serrato e acceso con le sue diramazioni poetiche più disparate ed eccentriche. Scorrano effettua un’oculata e motivata mise en abîme di un referente ipotestuale così prestigioso e coinvolgente, che si presta ad ennesime riletture e reinterpretazioni, proprio grazie ai suoi numerosi, eclettici e frammentari rispecchiamenti ipertestuali ed alle riscritture sovente decontestualizzanti, strumentalizzanti e persino parassitarie, se non scopertamente parodistiche e dissacratorie, che pullulano nel fervente e poliedrico, forse anche ipertrofico e giunto al limite dell’entropia, panorama letterario contemporaneo costellato di adattamenti, rifacimenti e trasposizioni arbitrarie, anarchiche, in alcuni casi antagonistiche, dei classici. L’esegeta dantesco adotta sia per i saggi di critica filologica sulla Commedia che per le ricognizioni ermeneutiche sulla riutilizzazione del dettato dantesco in ambiti poetici moderni lo stesso identico taglio metodologico, omogeneo, spigliato e coerente con l’intento esposto nella premessa. Mira infatti ad individuare nell’oceanica varietà di significanti polisemantici che infittiscono l’ordito stilistico dell’opera alcuni elementi simbolico-figurali salienti, declinati nelle numerose varianti accreditate dalla tradizione lessicologica dantesca, che individuano un paradigma assiologico pregnante per decifrare la chiave di lettura dell’intero brano.
Questo principio analitico viene applicato con eguale rigore teorico e scrupolo tassonomico all’episodio di Pier delle Vigne, gravitante intorno ad un archetipo di negazione della vita, che si alimenta a sua volta di termini chiave appartenenti alla famiglia semantica cruciale della selva (10-25), ed al canto III del Purgatorio, dominato dalla costante figurale della fuga verso la bontà riconquistata e ruotante sui segni basilari correlati monte e andare in suso (29-34). Lo stesso schema permea ovviamente anche la ricostruzione della struttura semantico-figurale del canto XXVI sempre del Purgatorio ma con l’introduzione di una variante: l’avvicendamento in questo canto di transizione del simbolo iniziale dell’orlo, fattore di contiguità con il canto precedente, con quello dell’ombra, più appropriato al tenore del brano.
Il saggio sulla presenza di calchi e suggestioni dantesche in Cellini riprende alcuni centri semantici fondamentali di natura agiografica e di ordine strutturale ascendente che caratterizzano il disegno piramidale della Commedia e li rapporta alla concezione eroica rinascimentale, esemplare ed ultrabiografica, che permea la Vita letteraria del celebre scultore (69 segg., soprattutto 84).
Il contributo sulla fortuna dantesca all’epoca del fascismo indaga, come abbiamo analizzato, sul rapporto ambiguo e parassitario intrattenuto dall’ideologia nazionalista del regime e la cristallina e universalistica concezione storico-politica dantesca, sviscerandone le ragioni recondite individuabili nella bieca e cinica strumentalizzazione propagandistica del classico letterario (106 segg.). Per definire il dantismo di Sereni, Scorrano ricorre all’aggettivo trasversale che indica una vasta gamma di inflessioni letterarie indirette e mediate, atte a sfumare in termini indeterminati ed impalpabili il calco testuale dell’espressione verbale dantesca, onde creare una sorta di diaframma poetico definibile con l’ausilio del neologismo concettuale coniato dall’autore: la onnipresente e distintiva purgatorialità che delinea e sancisce l’intera parabola evolutiva della lirica sereniana (166-67). Le annotazioni critiche riservate alla corrispondenza intertestuale esplicita tra il personaggio dantesco di Bonconte e il protagonista de La disubbidienza di Moravia meritano di essere segnalate perché puntualizzano uno dei possibili approcci novecenteschi al mito di Dante: il riuso metaculturale del classico in ottica antiletteraria e trasgressiva (169-70). Relativamente al bifronte e ancipite percorso di riappropriazione dantesca operante nel romanzo lirico e allegorico Le stelle fredde di Piovene, Scorrano effettua una ricognizione particolarmente approfondita sul piano narratologico in vista dello sdoppiamento assiologico tra l’orizzonte cristiano-occidentale della gerarchia oltremondana nella Commedia ed il suo azzeramento parodistico nella concezione scalare ed amorale dell’aldilà metafisico ma non teologico professata da Piovene tramite il suo portavoce letterario Dostoievski (181-82).
La rassegna viene emblematicamente chiusa da un sorprendente e spiazzante avamposto microdrammmatico contenuto all’interno di un romanzo sperimentale di Bevilacqua, all’insegna dell’archetipo del viaggio, comune denominatore tematico e figurale tra due opere poeticamente agli antipodi, quali appunto la “transumanante” e trasfigurante Commedia “divina” ed il prosaico e documentaristico romanzo a tesi L’occhio del gatto (197-98). Scorrano coglie l’occasione di questo incorporamento subliminale di sequenze dantesche nel montaggio scenico di un servizio bellico da parte del protagonista per sottolineare la presenza costante nel continuum poetico novecentesco del tema mitico del pellegrinaggio alla ricerca della conoscenza e della palingenesi umana che costituisce il nucleo generatore primario dell’intera architettura semantica della Commedia. Lo studioso ribadisce in ultima istanza le inesauribili potenzialità intertestuali di un motivo letterario e culturale che si discosta gradualmente dal suo remoto anche se intramontabile architesto medievale di riferimento e viene ripetutamente recuperato e riscritto in ennesime riedizioni modernizzanti, all’insegna di un’incessante e vertiginosa operazione di palinsesto (in senso naturalmente genettiano) destinata a protrarsi fino ai giorni nostri.
Nicola Bietolini, Roma
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