La Storia dell’architettura 1905-2008 Di Luigi Prestinenza Puglisi



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1.2 Deconstructivist Architecture


Sono proprio questi sette architetti- Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha Hadid, Coop Himmelb(l)au, Bernard Tschumi - che saranno invitati ad esporre alla mostra Deconstructivist Architecture che si inaugura al MoMA di New York il 23 giugno del 1988.

A rendere la mostra Deconstructivist Architecture un evento provvede la scelta del Guest Curator: Philip Johnson.

Philip Johnson, con i suoi ottandue anni e' infatti un personaggio oramai celebre che ha attraversato da protagonista l’intera storia dell’architettura contemporanea: e' stato, con Henry-Russell Hitchcock, colui che nel 1932, con la mostra International Style, ha importato l’architettura moderna europea negli Stati Uniti, poi il direttore del dipartimento di architettura del MoMA, ha lanciato la moda miesiana del quasi nulla con la Glass House costruita per lui stesso a New Canaan nel Connecticut (1947-1949) e ha lavorato con Mies van der Rohe al Seagram Building di New York (1954-1958). Infine, con una repentina virata, e' stato il campione del Post Modern cioè dello stile antimiesiano per eccellenza realizzando, tra l’altro, con il socio John Burgee il grattacielo AT&T a New York (1979-1984).

Johnson, che con questa mostra abbandona il Post Modern per sposare il decostruttivismo, ritorna a organizzare una esposizione dopo una assenza di oltre trenta anni e cioè dal 1954, quando aveva lasciato la direzione del dipartimento di architettura del MoMA.

Nella prefazione al catalogo Johnson mostra due immagini: di un cuscinetto a sfera, utilizzato per la copertina del catalogo della mostra svoltasi al MoMA nel 1934 Machine Art e di una abitazione estiva parzialmente interrata realizzata negli anni sessanta del nel deserto del Nevada 1800 (Spring house. Nevada 1860s) ripresa dall’obiettivo di Michael Heizer. Niente, afferma, potrebbe rendere meglio le due epoche della cruda differenza di queste immagini. Da un lato l’ideale platonico del Movimento Moderno, rappresentato dalla perfezione di un ingranaggio di acciaio dalle pure forme geometriche. Dall’altro una costruzione inquietante, dislocata, misteriosa, fatta di assi di legno appena sbozzate e bandoni di lamiera.

Sebbene ambedue gli oggetti siano stati disegnati da sconosciuti per scopi utilitari, oggi - continua Johnson - ci sentiamo più vicini alla sensibilità del secondo piuttosto che alla astratta razionalità del primo. E la stessa sensibilità la riscontriamo nella produzione dei sette architetti invitati i quali lavorano sul tema della “ perfezione violata “. Al quale, sia pure inconsciamente, nel campo delle arti, si ispirano artisti del calibro di Frank Stella, Michael Heizer, Ken Price.

Ad approfondire le tesi di Johnson , provvede nel saggio successivo l’Associate Curator della mostra, Mark Wigley secondo il quale negli anni Settanta è nata una cultura della disarmonia, come dimostrano i martoriati supermercati della Best realizzati dai Site e le lacerazioni programmate eseguite da Gordon Matta-Clark. Oggi, tuttavia, la decostruzione non implica più il rifiuto dell’architettura – avvenga questo tramite la disarchitettura (Site) o l’anarchitettura (Matta-Clark) - ma la consapevolezza che le imperfezioni (flaws) sono all’interno del fare architettonico, sono parte della stessa struttura e non possono essere rimosse senza distruggerla. E’ per questo motivo che il lavoro degli architetti contemporanei si rifà all’eredità delle avanguardie storiche e, in particolare, dei russi. Entrambi usano forme pure per produrre composizioni impure e entrambi si distaccano dall’elegante estetica del funzionalismo che si è fermata alla perfezione dell’involucro senza indagare la contraddittoria dinamica della funzione in sé e per sé presa. Ovviamente, afferma Wigley, non è importante che tutti gli architetti presentati siano consci di attingere alla tradizione costruttivista. Ciò che conta è che lavorino su una architettura in tensione, distorcendone la struttura senza per questo volerne la distruzione.

L’architettura decostruttivista ha, al pari di quella russa, un atteggiamento dialettico con il contesto: non lo imita ma non lo ignora, anzi lo utilizza per dislocarlo. Così come usa in modo dialettico categorie tradizionali quali dentro/fuori, sopra/sotto, aperto/chiuso. E’ forse proprio per questo suo interesse stilistico – conclude Wigley - che il decostruttivismo non può essere definito un’avanguardia. Non è un modo per annunciare il nuovo, a rethoric of the new, piuttosto mostra il non familiare nascosto dietro ciò che è conosciuto. E’, insomma, la sorpresa del vecchio.

E veniamo ai progetti in mostra. Alcuni di questi non sono nuovi. Per esempio di Gehry e' presentato l’ampliamento della propria casa a Santa Monica in California (avvenuto principalmente tra il 1978 e il 1979, anche se una terza fase e' del 1988) e il progetto della Familian House del 1979. Koolhaas presenta l’Apartament Building and Observation Tower a Rotterdam ( 1982), la Hadid The Peak e Tschumi (1983) i disegni del parco de la Villette a Parigi, aggiornati al 1985. Tra il 1985 e il 1986 sono i tre progetti di Coop Himmelb(l): il Rooftop Remodelling a Vienna (1985), l’Apartament Building a Vienna (1986) e lo Skyline di Amburgo (1985). Più recenti il Biocentro per l’Università di Francoforte (1987) di Eisenman e il City Edge a Berlino (1987) di Libeskind.

Si tratta , se si esclude la casa di Santa Monica di Gehry, di opere ancora in corso di costruzione o destinate a rimanere allo stato di progetto. Nella mostra e nel catalogo sono comunque tutte presentate esclusivamente con disegni e plastici per renderle tra loro omogenee e, per quanto possibile, sottolinearne le qualità formali comuni. Sono evitate le fotografie o le immagini di cantiere che avrebbero spostato il discorso da una riflessione formale astratta ad aspetti realizzativi più concreti.

La mostra Deconstructivist Architecture, come dicevamo in apertura, ha una immediata e inaspettata eco, diffonde la nuova sensibilità e focalizza l’attenzione internazionale sui sette architetti scelti e sugli altri, non chiamati a esporre, che però condividono la medesima sensibilità-

Tuttavia, rispetto al coinvolgente articolo di Peter Cook sul The Architectural Review dell’agosto 1986, che rintraccia nel lavoro delle giovani generazioni un atteggiamento appassionato di avanguardia, la mostra fa un passo indietro, riducendo a comune fatto stilistico poetiche in realtà molto diverse.

Lo testimonia l’esagerato richiamo di Johnson e di Wigley alle analogie formali con il costruttivismo russo. Sopravvalutando le quali, viene a squalificarsi il carattere di novità della ricerca. E, così facendo, si dimostrerebbe che ogni forma e movimento derivano da un altro che li ha preceduto. Quindi che, in questa epoca di rapido consumo formale, il decostruttivismo non è altri che uno stile come tanti altri: insieme allo strict-classicism e allo strict-modernism.

D’altronde anche lo stesso nome decostruttivismo è frutto di un equivoco in quanto connota sia un atteggiamento di superamento dell’avanguardia russa (de-costruttivismo) sia la parallela moda filosofica fondata sul pensiero di Jacques Derrida ( il decostruttivismo filosofico) in quegli anni particolarmente in voga.

Tanto più che - come dimostra la fallimentare esperienza del 1985-86 , in cui Tschumi chiama Eisenman e Derrida a lavorare congiuntamente a un giardino all’interno del parco della Villette- la decostruzione filosofica ha poco e nulla a che vedere con quella architettonica. La prima, infatti, si applica ai concetti e serve ad individuare, all’interno di un discorso razionale, quei presupposti, anche terminologici, dati per scontati e che invece, una volta svelati, mettono in crisi l’impianto del ragionamento stesso aprendolo a nuove e inaspettate interpretazioni. La seconda, invece, e' una tecnica per accrescere, attraverso una serie di rimandi concettuali, l’interesse del progetto e , di conseguenza, per organizzarlo secondo logiche formali che non sono riferibili a quelle canoniche. L’idea tuttavia di unire ricerca filosofica e architettonica, come succede in tutti questi casi, appassionerà non pochi studiosi e ci sarà un fiorire di libri e di saggi teorici che tenteranno di coniugare il decostruttivismo architettonico con quello filosofico, ignorando o cercando di superare i problemi concettuali sperimentati concretamente da Derrida e Eisenman.

Altre linee di ricerca, invece, punteranno sulla riscoperta del costruttivismo russo, oltretutto citato esplicitamente dalle opere di Koolhaas e della Hadid. Tuttavia, come e' facile vedere, all’interno di queste categorie, già di per sé ambigue, poco si inquadra il lavoro di Libeskind, di Coop Himmelb(l)au e, soprattutto, di Gehry. Ma ciò, almeno in una prima fase, avrà poca importanza.

Nonostante tutte queste ambiguità ,o forse proprio a causa di queste aperture a interpretazioni diverse e contraddittorie, il termine decostruttivismo godrà di grande fortuna. Sintetizzerà l’ ottimismo della fine degli anni ottanta e dei primi degli anni novanta. E, proponendo uno sperimentalismo teso a costruire un nuovo rapporto con il mondo, si contrapporrà al tradizionalismo conformista degli anni ottanta - quello, per capirci incarnato dall’architettura post modern- il quale ,invece, non riusciva a pensare al futuro se non nei termini della riproposizione , più o meno nostalgica, del passato.

Del resto, ad appena un anno dalla mostra Deconstrutivist Architecture, e cioè nel 1989 si consuma, con la caduta del muro di Berlino, uno dei più profondi processi di destrutturazione dell’ordine mondiale che la storia abbia conosciuto. Crolla un impero, l’URSS, di cui nessuno pochi ani prima avrebbe predetto la fine, si abbattono barriere culturali e ideologiche e si liberano energie che negli anni precedenti erano state mortificate e compresse. Si delinea, soprattutto tra i giovani, la consapevolezza che si può vivere in un mondo migliore dove la creatività non sia costretta ad essere imbrigliata all’interno del conformismo e del luogo comune.

Nelle università, nelle pagine delle riviste si diffondono, con straordinaria rapidità le idee più coraggiose. E i personaggi che più contribuiscono al dibattito, con le loro opere o con le loro posizioni teoriche, assumono un ruolo carismatico. In architettura ciò contribuirà a creare il fenomeno dello Star System. A beneficiarne saranno soprattutto i sette i quali, pur cercando di capitalizzare la notorietà derivante dalla moda decostruttivista, saranno ben attenti a non farsi etichettare come gli esponenti di un movimento caratterizzato da obiettivi comuni



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