Tra i maggiori beneficiati della mostra Deconstructivist Architecture, e' Zaha Hadid. La quale, tra le altre, ottiene due commesse che saranno importanti per la sua carriera: il Moonsoon Restaurant a Sapporo in Giappone e la Vitra Fire Station a Weil am Rhein in Germania. Quest’ultima avrà però una storia travagliata a causa di un budget che “constantly changed” e che si concluderà solo nel 1994.
Il Moonsoon Restaurant (1989-90) a Sapporo può essere interpretato secondo due diverse chiavi di lettura. La prima é metaforica. Il ristorante rappresenta il contrasto tra il freddo e il caldo, tra il ghiaccio e il fuoco. Chiari e taglienti come cristalli sono gli arredi del primo piano mentre caldi e morbidi sono quelli del secondo piano. Sapporo, d' altra parte, è una stazione invernale famosa per le statue di ghiaccio che sono scolpite all' aperto nei mesi invernali, mentre il fuoco è un riferimento ai focolari e agli spazi interni.
La seconda chiave di lettura è formale. Si fonda su una tecnica che Zaha Hadid ha imparato all' Architectural Association di Londra da Rem Koolhaas, che la usa spesso nei suoi progetti e consiste nel giocare sugli opposti (freddo e caldo ma anche pieno-vuoto, opaco-trasparente, leggero-pesante, spirale-scatola). Inoltre, in questo caso, il recupero del contrasto tra l'acuto del freddo e il morbido del caldo le permette di far confluire in un unico lavoro, le geometrie penetranti sperimentate con The Hong Kong Peak e quelle avvolgenti utilizzate in altri lavori, per esempio nel progetto di ristrutturazione dell'appartamento al 24 Cathcart Road (1985-86).
Il Music Video Pavilion di Groningen (1990), come il Moonsoon Restaurant e diversamente dalla stazione Vitra, è un oggetto multicolorato, frammentato da una pluralità di segni, caotico sino alla confusione. Ma é anch' esso scisso tra due metà: una chiusa, rivestita in metallo e dilaniata da una finestra dalla quale fuoriescono sghembi nastri con figure triangolari; e una aperta, risolta con una filiforme struttura di esili pilastri e travi nel cui interno si intravedono plastici volumi.
E' inutile, suggerisce la Hadid, optare per l' uno o l'altro termine delle innumerevoli coppie di opposti insiti nella dinamica delle forme; occorre, invece, accettarne la compresenza, esaltandone i contrasti. Sino a proiettarne l'irriducibile dualismo alla scala esistenziale più privata. Per esempio quella dell'abitazione unifamiliare, un settore dove, invece, predominano le idee convenzionali e scarseggiano proposte radicalmente innovative. Avviene con il progetto per The Hague Villas (1991), uno studio per la realizzazione di otto unità unifamilari da localizzare vicino alla Capitale olandese.
La Hadid propone due tipi: la cross house, derivata da un principio generatore lineare e la spiral house fondata sull'opposta matrice della curva.
La cross house è caratterizzata dall'intersezione di due prismi uno negativo, l'altro positivo. Il primo,al piano terreno, è un parallelepipedo sottratto al volume dell'abitazione circostante: quindi un vuoto. Il secondo, al primo piano, è lo stesso parallelepipedo, questa volta pieno, ma quasi perpendicolare al vuoto sottostante e completamente svetrato per ospitare gli ambienti di soggiorno. Ne risulta una abitazione che al piano terreno è racchiusa intorno a una corte interna mentre al piano primo si apre verso il paesaggio: contemporaneamente introversa e estroversa, in un dualismo che esprime sinteticamente il dilemma dell'architettura contemporanea sempre in bilico tra la brick house , cioè la casa caratterizzata dal muro perimetrale a difesa dell'interiorità ,e la glass house, in cui le superfici vetrate proiettano l'interno verso la natura circostante.
La spiral house nasce, invece, dall'opposizione tra il cubo dell'involucro e la spirale della rampa sulla quale si svolgono gli ambienti. Dall'incontro delle due geometrie si sviluppano sorprendenti viste interne e inaspettati canali di comunicazione e di interazione. Ma anche si attiva una progressione che -dal pesante al leggero, dal chiuso al trasparente - conduce verso l'alto.
Nel 1992 si inaugura al Guggenheim Museum di New York la mostra The Great Utopia, dedicata ai maestri del suprematismo e del costruttivismo. E' l'occasione - confessa la Hadid- per verificare la forza tridimensionale dell' astrazione di Malevič e della sua cerchia. L'allestimento ne viene di conseguenza: con l'installazione della torre pensata da Tatlin come monumento per la terza internazionale, al centro dell'atrio del museo e una serie di episodi paralleli ciascuno dei quali dedicato a un tema spaziale. Che può essere concretizzato dall'opposizione tra le costruzioni del quadro Red Square di Malevich e il Corner Relief di Tatlin; dall'estrusione attraverso pannelli di una composizione di Malevich tracciata lungo il pavimento; dalla raffigurazione di una tempesta geometrica che trascina lungo un angolo i quadri suprematisti; dal flottare in aria dei quadri adagiati lungo trasparenti supporti in perspex; dal gravitare delle sculture suprematiste lungo un'orbita che emerge dal pavimento dirigendosi verso il soffitto. Ciò che e' importante in questa mostra, al di là delle singole invenzioni, e' però una dichiarazione di principio: che l' architettura non è un supporto neutrale fatto di pareti lungo le quali disporre in bell'ordine una sequenza di opere. E’, all'opposto, una costruzione spaziale che, proprio perché coinvolge, indica interpretazioni, diventa un testo. Insomma, è il risultato di una ricerca artistica che, per verificare i propri assunti, può, anzi deve, entrare in conflitto con il sistema delle aspettative correnti.
1.5 Rem Koolhaas: il metodo e i suoi paradossi
L’architettura può rispondere alle esigenze della società contemporanea? E’ possible disegnarla sulla base di principi razionali? E ammesso che sia possibile, quali risultati possiamo sperare di conseguire? Per rispondere a queste domande nel 1989 Koolhaas partecipa a tre importanti concorsi:per la Biblioteca di Francia, per il Zentrum für Kunst und Medientechnologie e per il Sea Trade Center a Zebbruge. In ciascuna proposta l’architetto olandese mette a punto una strategia. La quale, applicata coerentemente, alla fine produce risultati paradossali.
La prima strategia, messa a punto con il concorso per la Biblioteca di Francia, punta sui vuoti e sulla loro interconnessione. Il progetto, infatti, consiste in un prisma compatto –costituito dalla massa edilizia riempita dai depositi dei libri- al cui interno e' ricavato per scavo e sottrazione un sistema di spazi tra loro comunicanti. Sono le sale di lettura, l'auditorium, le aule per conferenze e i percorsi orizzontali e verticali concepiti come un continuum di gallerie e di sale ipogee. Progettare pensando innanzitutto ai vuoti e non , come aveva fatto il postmodern, ai pieni vuol dire spostare l’interessa dal contenitore al contenuto, cioè allo spazio dove si svolgono le attività e quindi, in ultima istanza, agli eventi. Ma se nell’architettura è il vuoto che ospita gli eventi, sarà difficile disegnare l’involucro esterno dell’edificio. A meno che non si opti, come farà Koolhaas, per un edificio gruviera punteggiato dai buchi nati dall’intersezione tra le facciate e i volumi che ospitano i vuoti.
La seconda strategia nasce per dare risposta a una domanda non meno imbarazzante: se il principio generatore della metropoli contemporanea è il movimento, ciò non porterà alla dissoluzione dell’architettura che invece si fonda sui principi di solidità e di permanenza? Nel progetto per il Zentrum für Kunst und Medientechnologie a Karlsruhe Koolhaas disegna un edificio pensato come un'arena darwiniana che avrebbe dovuto coinvolgere l’intorno urbano ospitando esposizioni temporanee e permanenti, incontri e performance di vario genere. Ubicato vicino alla stazione, il Centro si sarebbe dovuto collegare alla città storica attraverso il sottopasso ferroviario, occupandolo in parte. In questo modo i passeggeri che giornalmente utilizzano la stazione avrebbero intravisto le opere d’arte e gli eventi artistici attraverso una parete di cristallo. Funzione simile , di diffusione e di attrazione, avrebbe svolto il grande schermo cinematografico ubicato nella facciata prospettante sulla piazza. Entrato all'interno dell' edificio il visitatore si sarebbe trovato in un espace piranesien con scale mobili e passerelle inclinate che lo avrebbero portato ad assaporare i diversi programmi delle varie sale disposte in successione spaziale, e, infine, al roof garden. Durante tutta la salita avrebbero goduto la vista dall'alto della stazione, il movimento dei treni e, infine, il panorama del centro storico di Karlsruhe. Osservato dal punto di vista del disegno architettonico il risultato è, però, paradossale: l’edificio tende a smaterializzarsi e a vivere in una situazione di precario equilibrio tra la forma e la non forma.
La terza strategia , messa a punto con il Sea Trade Center a Zeebrugge Olanda, un terminal destinato a supportare il traffico dei traghetti tra il Continente e la Gran Bretagna, per rilanciarne le attività in un momento in cui apparivano seriamente compromesse dalla costruzione dell'Eurotunnel sotto la Manica, investe la dimensione simbolica.
Già nel libro Delirious New York del 1978, l’architetto olandese aveva individuato due archetipi urbani; l' obelisco e la sfera. L' obelisco è un edificio senza interni che occupa il minimo del volume e svetta in altezza. La sfera invece include il massimo volume interno sviluppando la minima superficie, inoltre ha una notevole capacità di assorbire oggetti, persone, iconografie, simbolismi grazie alla capacità di farli coesistere al suo interno.La storia della metropoli moderna è per Koolhaas il tentativo di far convivere questi due archetipi " with the needle wanting to become a globe and the globe trying, from time to time, to turn into a needle- a cross-fertilization that results in a series of successful hybrids in which the needle’s capacity for attracting attention and its territorial-modesty are matched with the consummate receptivity of the sphere6".
Prototipo dell' obelisco è il grattacielo newyorkese, prototipo della sfera è la cupola di Buckminster Fuller. Koolhaas, con una mossa spiazzante, cerca di sintetizzarli in un unico oggetto: la forma risultante è un volume che si apre a spirale coronato da una calotta. L’espansione centrifuga e' determinata dagli automezzi che confluiscono nella parte bassa dell'edificio e trovano parcheggio lungo le rampe elicoidali. In alto da ristoranti, uffici, hotel casinò che si alternano sino alla sommità dove regna una cupola panoramica.
I tre progetti rimarranno irrealizzati. Eserciteranno, tuttavia, grazie alla paranoica chiarezza delle loro impostazione concettuale, una notevole influenza. Inoltre, lo aiutano per mettere a punto le idee che teorizzerà nel 1994 con l’articolo Bigness or the Problem of Large quando proporrà di approfondire una dimensione che non e' né quella dell’edilizia né quella dell’urbanistica7 e che proprio a partire da questi anni sarà oggetto di un crescente interesse teorico. Lo stesso metodo lucido, ironico e paradossale Koolhaas applica anche le opere di scala minore che Koolhaas realizza in questi anni. Sono caratterizzate dall’essere costruite accostando in una logica paratattica frammenti tratti da architetture famose. Il metodo ricorda il modo di comporre postmoderno. Ma con la differenza che, mentre questi non esitava a realizzare edifici copiando - o, come si diceva allora, citando-le architettute di un passato premoderno, spesso di ascendenza classica, le opere di Koolhaas riprendono quelle del Movimento Moderno, e cioè proprio quella tradizione innovativa e sperimentale che il postmoderno intendeva abolire. L’obietivo e' dar vita a un linguaggio contemporaneo che mette in scena, attraverso la pluralità e frammentarietà dei riferimenti, le tensioni e i contrasti della nostra contemporaneità.
Per esempio in Villa Dall’Ava, un’opera iniziata nel 1985 ma terminata solo nel 1991, Koolhaas cerca di coniugare, ispirandosi insieme a Mies van der Rohe e Le Corbusier, le esigenze contrapposte di due committenti che volevano l’uno una casa di vetro e l’altro una casa con una piscina sul tetto. A tal fine realizza un corpo longitudinale delimitato sui fronti da due corpi trasversali. Il corpo longitudinale è una glass house circondata su quattro latri da vetrate ripresa dall'architettura di Mies.
I due corpi trasversali richiamano, invece, l' architettura di Le Corbusier: sono organismi spaziali tripartiti come in Villa Savoy - pilotis, piano abitato e tetto giardino- , hanno una finestra a nastro , contengono sul tetto la terrazza-giardino. Grazie ai due riferimenti Koolhaas risolve il suo problema professionale ma nello stesso tempo fa coesistere, affiancandoli, due linguaggi tra loro diversi. Da qui una estetica del frammento di gusto tipicamente decostruttivista con conseguente sommatoria di pezzi il cui incontro non potrebbe essere più duro, meno organico. Non è rispettato un filo; non c'é un incastro ben risolto; la finestra, incontrando una parete trasversale, si interrompe bruscamente; il passaggio da un materiale all'altro è brusco e repentino.
La realizzazione più importante nel quale Koolhaas e' impegnato in questi anni e' la Kunstal di Rotterdam (1987-92). Nasce dalla volontà di disegnare un edificio squadrato il cui volume sarebbe stato spezzato da due strade: una che è la strada esistente che va da est a ovest; l'altra, una rampa pedonale da nord a sud, che avrebbe individuato l'ingresso sia al parco che alla Kunsthal. A collegare la scatola divisa in quattro parti una spirale ottenuta mettendo in successione i piani inclinati delle rampe e dell' auditorium e i piani orizzontali delle sale espositive, sfalsandoli in modo tale da realizzare un continuum spaziale che parte dal piano terreno e, passando per tutti gli ambienti, culmina nello spazio aperto del roof garden. Le sale espositive e l'auditorium diventano così essi stessi parte di un unico percorso, seguendo il quale si può girovagare informalmente e liberamente da una mostra all'altra e da questa a una conferenza.
La motivazione di questa strategia è innanzitutto formale: far scontrare principi opposti. Ma non e' priva di risvolti funzionali: se gli spazi articolano una catena di eventi, la libera circolazione tra questi va sicuramente nella direzione della cultura della moltiplicazione degli stimoli, ovvero di quello che Koolhaas chiama cultura della congestione.
Osserviamo adesso il volume esterno della Kunsthal e i suoi quattro prospetti: il primo è un banale prisma, i secondi sono di una linearità disarmante. Se guardiamo però l'edificio di scorcio si vede che, in tutti e quattro gli angoli, i due fronti che convergono sono diversi per materiali e non sono collegati visivamente e formalmente tra di loro: mai un allineamento o una giustapposizione risolta nei termini di una piacevole e armonica composizione architettonica, nonostante il fatto che ogni prospetto dichiari onestamente le funzioni che si svolgono al proprio interno. Ecco, quindi uno strano paradosso tipico dell’estetica decostruttivista: applicando le regole canoniche ( quali quella della corrispondenza tra interno ed esterno) ma all’interno di un contesto complesso e paradossale vengono fuori edifici non canonici, dall’aspetto destrutturato.
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