Al di là del tentativo di esprimere, attraverso un’architettura dislocata e frammentata, le tensioni e le energie della nuova epoca, il tema sul quale si misurerà il nuovo decennio sarà informatizzazione delle nuove tecnologie . Negli anni ottanta si sono diffuse capillarmente: entrando nel mondo produttivo, negli studi professionali, nella tecnologia di tutti i giorni. A partire dagli anni novanta, computer, nuovi media, servizi televisivi in tempo reale, internet, fax, videogiochi creano un mondo etereo e artificiale parallelo e sovrapposto allo spazio reale. Che può essere scrutato e dominato da prodotti che arrivano sino alla tragica raffinatezza delle bombe adoperate con successo dagli americani nella guerra del Golfo (1991), guidate dai flussi informativi sfuggiti agli avversari e in grado di colpire con precisione chirurgica anche ciò che si nasconde ad occhio nudo.
Immessa nell’universo delle informazioni – l’infospazio - l’architettura contemporanea deve ridefinirsi. Ecco il problema, intuito da Jean-François Lyotard già nel 1985, quando aveva organizzato al Centro Pompidou la mostra Les Immatériaux: come fare a rendere visibile il concetto di flusso informativo, che è di per sé invisibile?
Su questo tema, anticipando i tempi grazie alla sua straordinaria capacità di captare nuove istanze e novità, lavora il francese Jean Nouvel. Già nel 1987 ( ma il progetto e' del 1981) realizza l’Istituto per il Mondo Arabo, una delle grandi opere che, in quegli anni stavano cambiando il volto della città di Parigi, dovute alla presidenza di François Mitterand (1981-1995). L’edificio si caratterizza per la facciata vetrata continua dietro alla quale sono posizionate griglie metalliche mobili che , come l’obiettivo di una macchina fotografica, si aprono o chiudono in relazione alla quantità di luce ricevuta. Sono comandate da sensori elettronici programmati per garantire all’interno valori di illuminazione costanti, indipendentemente dalle variazioni di intensità della luce solare proveniente dall’esterno. Il risultato e' un edificio la cui immagine muta continuamente. E che si comporta come un organismo vivente, perché producendo feed back attiva strategie di mutamento che sono insieme funzionali e formali.
Sulla stessa linea di ricerca si muove il giapponese Toyo Ito che nel 1986 a Yokohama realizza la Torre dei venti una struttura che, sempre mediante l’ausilio di alcuni sensori elettronici, trasforma l’aria, i suoni e i rumori della città in effetti di luce mutevoli.
Nel 1985 e nel 1986 con la installazione PAO 1 e PAO 2 : Dwelling for Tokyo Nomad Woman Ito, con una immagine fortemente suggestiva, cerca di rappresentare la casa elettronica. Realizza una tende a forma ovoidale, delimitata da veli trasparenti. All’interno tre mobili quasi evanescenti: uno per il trucco, uno per mangiare, uno per le attività intellettuali.
La differenza con la casa tradizionale è evidente: quest’ultima è radicata nel terreno e, oberata di oggetti di utilità simbolica o funzionale, costituisce un mondo a sé, quasi un microcosmo; esattamente l’opposto della casa elettronica che per sua natura è instabile e non autosufficiente.
Le nuove tecnologie, infatti, stimolano il nomadismo, cioè la disponibilità a essere sradicati dai luoghi, a vivere viaggiando, sia attraverso spostamenti materiali (auto, treno, aereo) che per mezzo degli strumenti di comunicazione (radio, televisione, internet, telefono, teleconferenza). Inoltre, non implicano spazi chiusi ed introverso perché ci lega tutti come se vivessimo all’interno di un unico e complesso sistema nervoso. Infine, accelerando lo scambio delle merci, e rendendole ovunque disponibili, ne rendono inutile la conservazione in ambiente domestico.
È da Marshall Mc Luhan, geniale studioso canadese dei media, che Ito riprende la riflessione sulla centralità, in una società elettronica, del senso del tatto e dell’importanza della pelle: cioè di una epidermide sensibile che riveste gli edifici e permette di far interagire l’ambiente domestico con lo spazio urbano assorbendo all’interno luci, suoni, flussi e restituendo all’esterno immagini e tensioni vitali.
Nel 1991 Ito partecipa alla mostra londinese Visions of Japan allestendo una stanza a cui avrebbe voluto dare il nome di Simulation ma che, alla fine, su consiglio di Arata Isozaki, chiama con il nome più popolare di Dreams.
E’ un ambiente di 10x28 metri su cui è installato un pavimento galleggiante rivestito di pannelli acrilici opachi sui quali 26 proiettori, sospesi al soffitto, proiettano immagini di Tokio. Sulla parete corta è installato uno schermo a cristalli liquidi. Sulla lunga un muro leggermente ondulato rivestito in pannelli di alluminio velati da una tenda su cui 44 proiettori proiettano altre immagini della vita della capitale giapponese. Una batteria di amplificatori,infine, diffonde nell’ambiente una musica, processata da un sintonizzatore, tratta dai suoni della metropoli.
Nota, divertito, Ito che il Principe del Giappone, quando inaugurò la mostra, ebbe bisogno di bere qualche tazza di Sake prima di poter entrare in un ambiente insieme tanto caotico e evanescente e che il Principe Carlo – da sempre nemico della metropoli – chiese quali messaggi si celassero dietro le immagini. E, poi, alla risposta di Ito che forse dietro le immagini non c’era nulla, gli chiese se non fosse un inguaribile ottimista1.
Ito, nelle sue opere, lavora spesso sull’immagine svuotata di ogni significato, quasi lasciata a uno stato impressionistico, uno stadio cioè che ha raggiunto i sensi ma ancora non si è formalizzato nell’intelletto.
Come nell’Uovo dei venti (1988-1991) ad Okawabata River City,una scultura – caleidoscopio rivestita in pannelli di alluminio traforati che riflette le immagini della città che vi si proiettano e, insieme, lascia intravederne altre proiettate da televisori disposti al suo interno.
I fotogrammi, esattamente come quelli di un televisore a cui si toglie l’audio, perdono ogni significato, diventano puri fenomeni sensoriali: colori e forme che vibrano e fluttuano nello spazio.
E lo spazio, visto sotto questa luce, appare non più come il vuoto in cui dimorano i corpi solidi ma come il medium attraverso cui si diffondono le informazioni. “ The object differs in character from TV sets installed on the street posts or a large Jumbo-torn colour display which decorates the wall of a building in downtown. It is the object of video images which can be seen through the information filled air in the surroundings. It is the object of images which come with the wind and which are gone with the wind.”2
Torniamo alla battuta di Ito che dice al Principe Carlo che dietro le immagini può non celarsi nulla. Sarebbe potuta benissimo essere di Andy Warhol con il quale Ito certamente condivide la fascinazione per la realtà, così come si manifesta nel suo accadere, a prescindere da ogni contestualizzazione o mediazione concettuale.
Ma mentre Warhol gela l’immagine in figure dai contorni ben definiti (siano esse la scatola di Campbell o i ritratti di Marylin, di Jackie o di Mao Tze Tung), Ito la coglie nel momento in cui è ancora un flusso di energia. L’elettronica, lo vedremo più tardi a proposito della biblioteca di Sendai, è come un soffio vitale che può essere reso onde dalla metafora delle onde del mare. Ed e' proprio per questa immaterialità che ha privilegiato l’intelligenza e la flessibilità del software rispetto alla materia dell’ hardware, cioè della macchina, che e' stato possibile superare la società meccanica che ci ha preceduto.
Ma se questo processo sta avvenendo nelle industrie più avanzate, ancora tarda a manifestarsi nel mondo delle costruzioni dove non è ancora cambiato l’organizzazione rigidamente funzionalista – e quindi, in ultima istanza, meccanicista – delle abitazioni: “we have not jet found “afferma Ito” a space suitable for the ideal life in the computer age.”3
Eppure le nuove tecnologie hanno stravolto le coordinate formali dell’ambiente in cui viviamo. Basti pensare , afferma Ito, al disegno delle automobili. La Due Cavalli della Citröen e il Maggiolino della Volkswagen hanno ceduto il passo ai moderni modelli giapponesi della Toyota e della Nissan le cui forme non riflettono più la meccanica interna ma processi più astratti: la facilità e il comfort della guida, la riconoscibilità e la gestione dei comandi, il controllo automatico della localizzazione, i contatti radio e telefonici, il benessere climatico, l’ergonomia, la gestione del risparmio energetico, i meccanismi automatici di sicurezza. In altri settori i cambiamenti sono ancora più profondi: basti pensare ai campi come la bioingegneria dove biologia e microelettronica cooperano.
Nel 1992 per il concorso per la Biblioteca Universitaria di Parigi
Ito prevede una scatola minimalista: una piastra formata dall’accostamento di corpi longitudinali su due livelli che affacciano su altri corpi longitudinali a doppia altezza; lo schema è interrotto in due punti da altrettanti corpi ellittici con funzioni di punti di incontro; le superfici esterne sono rivestite con materiali trasparenti che lasciano intravedere all’interno gli scaffali e gli elementi di arredo.
Ito rifiuta qualunque concessione espressiva: non vi sono riferimenti o ammiccamenti alla storia, allusioni a linguaggi consolidati, giochi chiaroscurali o cromatici, tracciati o modulazioni armoniche.
Persegue, invece, come notano Iñaki Abalos e Juan Herreros, la ricerca di una semplicità quasi assoluta “a sort of new ease, a new simplicity that believes that complexity is no longer expressible in geometric terms, or to be more exact, that geometric complexity and its deformations have ceased to be pertinent resources in relation to architectural expression.”4
Ideale dell’architettura è quindi la ricerca di uno spazio neutro, omogeneo, aprospettico, trasparente sino a diventare effimero, cioè l’antitesi dei principi dell’architettura monumentale della tradizione classica, espressi da edifici che vogliono vivere per l’eternità.
La precarietà e l’inespressività dell’involucro spostano l’attenzione dell’osservatore dal contenente al contenuto. Con il risultato che la Biblioteca rassomiglia al chip di un calcolatore: entrambi sono spazi asettici in cui sono privilegiate le interconnessioni che veicolano il passaggio di informazioni e entrambi sono scanditi da una griglia di percorsi preferibilmente ortogonali e, comunque, strutturati sulla logica del tragitto più breve.
Inoltre i due corpi ellittici previsti dal progetto, pur non avendo immediato riscontro nella reale architettura informatica, cioè quella del microchip, suggeriscono il movimento di flussi di energia : “The oval – nota Ito – contrasts with the classical square court configuration formed by inner walls of a group of buildings. I am creating a new kind of square to express the dissemination of information in dense area. It is the oval, rather than the circle, which embodies the sense of flowing.”5
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