Giampaolo Dossena dizionario dei giochi con le parole



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In ogni modo gli studi sugli antenati dello Scrabble sono ancora tutti

da fare.


Più facile sarà mettere ordine fra i discendenti dello Scrabble.

Alcuni ricalcano da vicino lo schema dello Scrabble: per esempio La

Clé (1954, Miro Company: 19 caselle per lato) e il già citato Diamino

(Gay-Play: 14 caselle per lato).

Altri hanno qualche spruzzo o spruzzolino di originalità nella confezione o nelle regole. Diamo in ordine alfabetico quelli che ci è capitato di raccogliere negli ultimi anni ma il totale sarà da moltiplicare per dieci,

per cento: Lettera, Lingua (entrambi Ravensburger), option (1983,

3M), Red Seven (Editrici Giochi), Word + Number Master Mind, Word

Master Mind, Words Worth, Word for Word (tutti questi quattro giochi

sono della Invicta, 1975 e dintorni; il quarto fu anche distribuito in Italia col nome Parole Crociate), Vocambolo (Istituto del Gioco).

Il discendente non spurio di Scrabble che sembra aver raggiunto il

maggior grado di originalità e di perfezione è lo Jago di Alex Randolph (1984, Editrice Giochi), che ebbe una prima stesura nel 1975

col nome Motannot (Ravensburger; distribuito anche in Italia col nome Rubaparole).

Non consideriamo in questa sede giochi di parole in scatola che non

sono giochi di tavoliere: per esempio il Probe (1964, Parker; 1967,

Miro) o il famoso Le Mot Le Plus Long di Armand Jammot, Ceji (in

Italia, 1978, Paroliamo, So.Co.Ge, Adica Pongo) o altri giochi come

Password (1973, Peak Productions, poi Milton Bradley), Lex (Mondadori Giochi), Blockword (1976, Waddington).

In particolare non consideriamo in questa sede giochi di parole con

dadi, che non siano giochi di tavoliere (rarissimi sono i giochi di

parole con dadi che siano giochi di tavoliere: Wortwirbel, Ravensburger 1984) .

L'ultimo capitolo di questa storia riguarda un mutamento genetico.

Le parole incrociate sono un gioco che si fa a carta-e-matita su uno

schema che si trova stampato sui giornali. Dalle parole incrociate nasce un gioco in scatola, che si fa con tasselli estratti da un sacchetto disponendoli su un tavoliere: lo Scrabble. Dallo Scrabble nascono i

"problemi di Scrabble" che si fanno a carta e matita su uno schema

che si trova stampato sui giornali. In Italia sono diffusi dal 1980

"problemi di Scarabeo": vedi illustrazione n.66.


215 \segnaccento - Segno convenzionale con cui si indica, scrivendo,

l'accento tònico su parole come sùbito-subìto, e, più raramente,

l'accento fònico su parole come vènti-vénti.

Dire "accento" invece di "segnaccento" genera belle confusioni.

A scuola si impara a fare un segnaccento svolazzante. L'uso corretto

della macchina da scrivere vorrebbe si distinguesse il tasto della é (1

quello della è; per la o c'è il tasto col segnaccento ò, non c'è quello

con ó. Per la à, ì, ù, c'è di solito segnaccento grave (ma alcuni lo mettono acuto su i e u: ma fa lo stesso). Scrivendo in tutte maiuscole i giornali sostituiscono il segnaccento nelle parole tronche con un apostrofo.


216 \sei-sei - Una volta in tutte le scuole di tutt'Italia si studiava a memoria quella poesia di Giosuè Carducci intitolata Pianto antico che comincia "L'albero a cui tendevi" e dice, verso la fine:
sei nella terra fredda,

sei nella terra negra.


ogni tanto nell'aula sorda e grigia risuonava l'esile voce di chi veniva

interrogato, e, riassumendo la poesia, "dicendola con parole sue"

esordiva: "questa è la triste storia di dodici poveri bambini che erano

morti, e sei li avevano sepolti in una terra fredda come il ghiaccio e

sei in una terra nera come il carbone". Si dava anche il caso che, trattandosi di lutto famigliare, qualcuno precisasse: "Il Carducci aveva

dodici figli".

"Sei" numero e "sei" voce del verbo "essere" si pronunciano entrambi con la E larga (dunque non è questo un caso di vénti-vènti). Hanno identità di forma, si scrivono e si leggono nello stesso modo (omògrafi omòfoni). Ma sono 2 parole diverse, con 2 significati diversi.

Nella classificazione dei giochi di parole siamo al punto C, diverso da perché-perché e da campo-campo.

Giuseppe Gioachino Belli scrive

chi mmaggna more e cchi nun mmaggna more


e spiega che questo è un "grido de' venditori di more-prugnole, nelle

ore di vespro". In romanesco "more" è anche "muore".

Nell'atto unico di Giancarlo Cabella, ologos, la battuta finale del

doppio Io (guardia e ladro a fronte, pistola in pugno) è


Sparire o sparare? (pausa)

Spariamo!


Botto e lampo. Sipario. C'è lo sparo, "spariamo" da "sparare", c'è la

sparizione, "spariamo" da "sparire".

è facile trovare esempi paralleli: "marciamo" da "marcire" e da

"marciare". "Marciare e non marcire" era un motto della rivista Il

Selvaggio di Mino Maccari.

è facile trovare altri esempi:


amare (verbo, e plurale femminile di "amaro": amaro amore),

alfiere (portinsegna e pezzo degli scacchi),

canto (da "cantare" e angolo),

cappotto (pastrano e tipo di vittoria in certi giochi),

lètto (da "leggere" e dove si va a dormire, poltrire ecc.),

matto (pazzo e situazione negli scacchi: già in Galletto Pisano),

riso (atto del ridere e pianta delle Graminacee),

sètte (numero e plurale di "setta"),

tèmpi (plurale di "tempo" e di "tempio": ma nel secondo caso oggi si

preferisce dire "templi") ecc.


Raccontiamo altri aneddoti. (Allungare la lista può dare turbe psichiche: si fatica a mettere a fuoco i due termini di ogni coppia, ballano gli occhi).

In Amarcord di Federico Fellini c'è una ragazza che dice "gradisca! ",

espressione di cortesia usata generalmente per far accettare l'offerta

di cibi, bevande e simili: vien da "gradire". ormai lo si dice solo in

senso ironico. né si dà più il nome di Gradisca a una bambina, come

si fece durante la prima Guerra Mondiale e subito dopo, in onore

della cittadina oggi in provincia di Gorizia (dal 1923 Gradisca

d'Isonzo; il toponimo viene dallo sloveno). La ragazza di Amarcord

non offre cibi, bevande e simili bensì sé stessa: "s'offre" come leggiamo in Trilussa alla voce tremare-tre/mare.

In quegli anni, in quegli ambienti, un personaggio di Piero Chiara

gioca su "fallo", errore e membro virile. Lo stesso Chiara spiega, in

una delle sue pagine pacate, che quando i Carabinieri si chiamavano

"Reali Carabinieri" (ai tempi della ragazza Gradisca; e avevano sul

berretto la sigla RRCC), la gente li chiamava, a volte, "i Reali". In questo aggettivo sostantivato la gente sentiva un riferimento alla realtà di un'effettiva forza dell'ordine, anziché un riferimento alla regalità, di

corpo strettamente legato alla dinastia sabauda, emanazione diretta

dell'autorità sovrana.

Altra storia lombarda: Milano, 9 dicembre 1811, prima dell'Aiace di

Ugo Foscolo. Un grido: "o Salamini!" per invocare gli abitanti

dell'isola di Salamina. Gli spettatori pensano ad altro e fanno venir

giù il teatro.

Altra storia neoclassica, parodia di versi alfieriani:
Sailo? Sollo.

Sallo il re? Sallo. Sassi ovunque? Sassi,

sassi per tutta Roma e tutta Atene.
Ultima storia greca: Gaetano De Sanctis, grande storico, una volta

confuse gli abitanti di Focea con gli abitanti della Focide perché in

italiano si chiamano tutt'e due Focesi. In francese si chiamano gli

uni Focéens, gli altri Focidiens, e la confusione diventa più difficile.

Non capita spesso di confondere Monaco di Baviera con Monaco

principato, ma durante la seconda guerra mondiale una spia fece

confusione fra la città di Casablanca e la White House di Washington.

Fra le utilizzazioni letterarie serie di questo gioco citerò


la fede è corta e la beltà non dura,

ma di par seco par che si consumi


(sembra che la bellezza si consumi insieme con, di pari passo con, la

fede), del serissimo e sovrestimato Michelangelo Buonarroti.

L'Aretino, come scrittore, vale molto più di Michelangelo; ma anche

lui, quando scrive cose serie, non ha risultati migliori:


o empio re de le perdute genti,

e tu dio degli dei,

questa grazia vorrei:

ch'un togliesse a le fiamme, ai mostri e al gelo

la più tormentata alma;

e l'altro, la più alma

agli angeli del cielo.
Il primo "alma" è "anima", il secondo è "nobile, elevata", e "tormentatalma / alma" è deplorevole.

Due esempi latini: "Quid facies, facies Veneris si veneris ante?" e

"soli soli soli", che sarebbe da tradurre "all'unico sole della terra".

Fin qui abbiamo visto coppie di parole; ma le parole di questo tipo si

possono presentare a tre a tre:
ratto ("rapimento", "veloce", "roditore affine al topo"),

sale ("cloruro di sodio", plurale di "sala", voce del verbo "salire"). 7


Si possono presentare in folla. Livio Borriello ha scritto:
Muta la muta la muta

mentre la muta

nella muta

non fa più la muta.

Amara muta,

amara muta,

amara muta.
Traduzione: "Indossa l'afona una nuova tuta da sub / mentre la folaga / nel branco / non cambia più le penne. / Amara sostituzione, /

amara gabella, / amara moneta piemontese d'argento in corso alla fine del XVIII secolo".

Gli enigmisti italiani chiamano bisenso una coppia di parole come

quelle sin qui considerate; ma applicano l'etichetta "bisenso" anche a

coppie di parole come campo-campo. Niente di male: in certi casi

è comodo fare un raggruppamento e parlare di bisenso, usare l'etichetta "bisenso". Fanno la stessa mistura quelli che parlano di "polisemia" .

Piuttosto, notiamo qui che "bi-senso" vuol dire "due" sensi; "polisemia" vuol dire "molti" sensi. Gli enigmisti italiani, tenendo ferma l'etichetta di "bisenso" per i "due" sensi, hanno "polisenso" per indicare le parole con "molti" sensi (più di due).

I due fenomeni, "campo-campo" e "sei-sei", sono accomunati dalla

pari possibilità di costituire rima equivoca ("alma-alma" nei versi

dell'Aretino citati più sopra).

Sta insieme a sei-sei e a tutti gli esempi citati anche lancia-lancia.

Se non si distinguono E e o stretta e larga, S e Z sorda e sonora, diventano giochi come "sei-sei" quelli che invece, per gli italòfoni provetti e avveduti, stanno altrove: nelle voci dedicate a venti-venti,

colla-colla, presento-presento, razza-razza.
nota:

sono parole eterogenee. Ma quando diciamo "eterogenee" intendiamo etimologicamente eterogenee,

dunque andiamo a cascare in questioni di etimologia, che sono spesso questioni di lana caprina...

Perché poi, diciàmocelo, sono 2 parole diverse con 2 significati diversi anche lancia-lancia: che devono

star qui, con "sei-sei" benché siano omogenee. Per snebbiarci la testa diciamo che fatti del genere awengono anche in altre lingue: in cinese "i" - una ì nel "quarto tono" - offre non

meno di 38 parole dai significati totalmente irrelati


217 \sestina - Francesco De Sanctis, professore, deputato, ministro

della Pubblica Istruzione, ha scritto che la sestina


è nella storia delle forme poetiche quello che i concetti e le acutezze sono nella storia del pensiero. [...] forma sgraziatissima, [...] affettata e

pretensiosa.


Se foste sorpresi da un De Sanctis mentre state leggendo di nascosto

quella sestina di Dante Alighieri che comincia "Al poco giorno e al

gran cerchio d'ombra", o una delle sestine di Francesco Petrarca,

per esempio "A qualunque animale alberga in terra", potreste giustificarvi dicendo che le sestine non vi piacciono, anzi le trovate sgraziatissime, affettate e pretensiose, ma fate il sacrificio di esaminarle

per cogliere nelle parole-rima efficaci esempi di rime identiche

e di rime equivoche.

La sestina è in endecasillabi, riuniti in strofe a sei a sei. La prima

strofa ha le parole-rima disposte in un ordine qualsiasi. Nella seconda strofa il primo verso ha la parola-rima dell'ultimo verso della precedente; il secondo verso riprende il primo della precedente, il terzo

il penultimo, il quarto il secondo, il quinto il quarto, il sesto il terzo.

Se a dirlo così, non è chiaro, proviamo a vederlo in un altro modo

(ma non vedete niente se non andate a prendere un libro con una sestina, di Dante Alighieri o di Francesco Petrarca).
La prima strofa ha le parole-rima disposte in un ordine qualsíasi, per

esempio a b c d e f. Nei versi seguenti le parole-rima si sgranano

in un ordine di combinazioni che potrete sperimentare e imparare usando i pioli colorati del Master Mind (li usiamo per un altro gioco alla voce note musicali). Nel diagramma seguente ogni lettera rappresenta la parola-rima di un verso, e ogni riga rappresenta una strofa.
a b c d e f

f a e b d c

c f d a b e

e c b f a d

d e a c f b

b d f e c a


La terza strofa sta alla seconda come la seconda sta alla prima, e così

Via.


Nei tre versi del commiato compaiono tutte le sei parole-rima, tre in

fine di verso, tre in fine di emistichio (o quasi).


218 \she fu - Gioco di parole cinese descritto da Lin Yutang nel libro

The Importance of Living (Heinemann, London-Toronto 1938, p.

251). Nell'edizione italiana, L'importanza di vivere (Bompiani, Milano 1939, pp. 212-13) il traduttore, Piero Jahier, mutilò la parte del testo che spiegava minutamente lo she fu, cosicché si legge solo questa frase:
Il gioco più semplice è lo shefu nel quale una sillaba che forma il principio di una parola e la fine di un'altra, è nascosta coll'intrecciare le altre sillabe in una parola, e il giocatore deve indovinare le sillabe mancanti,
con rimando a questa nota in calce:
Seguono alcuni giochi di parole intraducibili, ai quali l'enigmista italiano può sostituire i propri (N.d.T).
Chi ricorra al testo originale inglese vede che (come ha notato Salvatore Chierchia) il meccanismo dello she fu corrisponde a quello del nostro gioco casco-scovolo-cavolo. A PieroJahier questo non venne in mente perché non aveva il bernoccolo dell'enigmista, e perché gli enigmisti italiani inventarono il gioco del "casco-scovolo-cavolo"

solo una decina d'anni più tardi (nel 1950, e lo chiamarono lucchetto).

Mentre il gioco del "casco-scovolo-cavolo" si trova sulle riviste enigmistiche e dunque è un gioco solitario, da fare con carta-e-matita, lo she fu è un gioco per due persone, orale, competitivo.

Il primo giocatore (sfidante) dice per esempio (fingiamo di giocare in

italiano) "cavolo".

Il secondo giocatore (sfidato) suppone in primo luogo che la parola

"cavolo" vada tagliata in "ca-" e "-volo"; in secondo luogo suppone

che i due segmenti possano completarsi con sco, casco scovolo". in terzo luogo cerca altre parole che possano adattarsi a sco- e sco-, per esempio "peSCO-SCOlo", e finalmente dice

"pelo".

A sua volta il primo giocatore pensa per esempio "eSCO-SCOcco"



e dice "ecco", e così via, da una parte e dall'altra, dicendo "ba-llo,

bo-cci, bru-tto, bu-rro, di-sceso, fi-sso, fi-tto, la-to, la-vare, lo-glio,

o-lio... Si può ricorrere a nomi propri, pensando per esempio "toSCO-SCOto" e dicendo "Totò", oppure "moSCO-SCOlari" e dicendo "molari". Totò è un attore napoletano, Mosco è un poeta

greco.
219 \sillabario - Nel senso scolastico della parola, il "sillabario" è più

o meno un sinonimo di abbecedario. L'abbecedario insegna a leggere lettera per lettera, compitando; il sillabario insegna a leggere sillaba per sillaba, ma nessuno di questi due metodi pedagogici è più

molto seguito, e così si fa confusione fra i due.

(Le due diverse storie dell'abbecedario e del sillabario sono ancora

da scrivere, per quel che ne so. Il poeta greco Clearco di Soli, IV-III

sec. a.C., avrebbe scritto una "tragedia grammaticale" in cui il coro

era composto da donne che personificavano le lettere dell'alfabeto e

sillabavano ritmicamente combinazioni di lettere consonàntiche e

lettere vocàliche facendo pressappoco qualcosa come "ba-be-bi-bo-

bu")
Nel senso non scolastico bensì letterario della parola, il sillabario è

un gioco che ha fatto da noi Italo Calvino: consiste nell'inventare

brevi storie le quali diano più o meno senso alle frasette tipiche del

sillabario scolastico, da "ba-be-bi-bo-bu" a "za-ze-zi-zo-zu". (Se consideriamo "babebibobù" alla stregua di una parola, la ritroviamo al

punto 1 del gioco delle aiuole.) Precisamente il gioco di Calvino si

chiama Piccolo sillabario illustrato perché le brevi storie "illustrano"

le frasi che vanno da "ba-be-bi-bo-bu" a "za-ze-zi-zo-zu". Scegliamo

l'esempio della L, "la-le-li-lo-lu":


Nei suoi inquieti amori con Nietzsche, Lou Salome avrebbe ben voluto provocare nell'amico una levitazione non solo spirituale ma anche fisica. Battendosi le mani sulla fronte, il filosofo le rispondeva che

solo la sua mente era dotata d'ali per innalzarsi a volo: "L'ale lì l'ho,

Lou.
La storia di questo gioco comincia nel 1977, e si ferma al 1978 perché è quasi impossibile trovare nuove "illustrazioni" dopo quelle di Calvino.

Lo scritto di cui parliamo è finalmente disponibile in: Italo Calvino, Prima che tu dica "Pronto", Mondadori, Milano 1993, pp.14.


220 \simbolismo alfabètico - Nella grande tribù degli alfabeti figurati si può forse isolare una famiglia in cui non succede che le lettere si trasformino in figure: le lettere sono figure.

Parlando di questa famiglia Margherita Guarducci ha usato la definizione "simbolismo alfabètico", intendendo che una lettera dell'alfabeto (alfabeto greco, nella fattispecie) venga a rappresentare di per

sé, per la sua forma grafica pura, senza alterazioni, una qualche cosa o idea o valore spirituale. Riprendiamo gli esempi raccolti dalla Guarducci per il delta, l'èpsilon, il tau, lo ypsilon.

(Mentre nelle scritture pittografiche le lettere o i segni di scrittura

cercano di riprodurre le immagini degli oggetti, il "simbolismo alfabetico" segue un processo inverso: non dall'oggetto alla lettera bensì dalla lettera all'oggetto.)

Il delta, corrispondente al nostro D, ha nel maiuscolo la forma di un

triangolo isoscele, che richiama l'organo femminile della generazione

(al quale fa riferimento anche il gesto di unire le punte dei pollici e

degli indici divaricati). Per questo rappresentava secondo i pitagorici

il "principio della generazione". Se ne ha conferma nella Lisistrata di

Aristofane. '

Lo èpsilon ha nel maiuscolo la stessa forma della nostra E. Poiché richiama la forma di una chiave a tre denti, è simbolo della custodia del tesoro di sapienza del santuario di Apollo a Delfi. Plutarco scrisse a questo proposito un dialogo intitolato Intorno allo E presso iDelfi. L'immagine della chiave a tre denti torna, con passaggio all'alfabeto latino, presso i primi cristiani, in riferimento a PE, abbreviazione di Petrus, l'apostolo Pietro che tiene le due chiavi del regno dei

cieli. Di una chiave si vede la parte a tre denti, E, che entra nella serratura; dell'altra chiave si vede l'anello, P, che si tiene in mano per farla girare. In certe iscrizioni la P e la E sono sovrapposte, così da

dare l'immagine perfetta di una chiave.

Il tau ha nel maiuscolo la stessa forma della nostra T, cioè la forma di

una croce (croce a T o croce commissa o croce patibulata: illustrazione n. 73) la quale si caricò poi di grandi significati per la crocifissione del Cristo.

La ypsilon ha nel maiuscolo la stessa forma della nostra Y. Il tratto

verticale dal quale divergono due tratti obliqui suggerì già a Pitagora

l'idea dell'uomo al bivio fra la virtù e il vizio. L'augurio salutare della

Y era confermato dal fatto che la Y fosse anche l'iniziale della parola yghiéia, salute.

Non vorrei che vi faceste un feticcio delle classificazioni. I confini fra

alfabeti figurati e simbolismo alfabetico sono elastici. Si può pensare

all'alfabeto in termini figurativi anche senza ricorrere al disegno o alla pittura. Diceva per esempio Victor Hugo che la A (maiuscola, s'intende) "è il tetto, il frontone con la traversa, o l'abbraccio di due

amici che si baciano e si stringono la mano". Temo che qui la bibliografia sarebbe sterminata. Da cinquant'anni non lo sento più dire ma l'ho sentito dire tante volte, e ahimè devo averlo detto anch'io

"sembra l'articolo il", quando passava una coppia di donnina piccina

piccina picciò, con uomo lungo lungo, allampanato.


nota:

Se provate a fare un riassunto della storia di quel bambino che vedeva

nella "m" una "n" con tre gambe,

cioè col pene, pochi crederanno che

l'abbia raccontata Freud con toni

tragico-scientifici. Non diversamente

sembrano o sono racconti umoristici

quelli di Poe sull'uomo che amava la

"o", quello di Thurber sull'uomo

che odiava la "o"... (Forse i freudiani

terranno buona la interpretazione

della "o" che dava il Folengo.) Ho

raccontato rapsodicamente alcune

storie come queste per una mostra di

quadri di Armodio sull'alfabeto tenuta nel 1981 alla galleria di Philippe Guimiot, Bruxelles.
221 \sìncope - Si chiama "sìncope" il fenomeno linguistico per cui cadono uno o più suoni all'interno di una parola, come in "compErare-comprare".

Il significato non cambia, mentre cambia il significato nei giochi di

parole come "caRne-cane, canUto-canto" (che vediamo alla voce

tempio-empio), per i quali dunque sarebbe meglio non parlare di

"sìncope" (se proprio si volesse, si potrebbe parlare di "pseudosìncope").

"Comperare-comprare" sono varianti di forma. Altri esempi:

"adoperare-adoprare, pareva-parea, scioglimi-scio'mi, Giovanni-Gianni" ...

Nel lento passaggio dal latino all'italiano "càlidum" diventa "caldo"

per sìncope, e così "dominam-donna"... Da "sòlidum" vengono sia

"solido" sia "soldo", che sono allòtropi.

La sìncope è speculare alla epèntesi.
222 \sinònimo - Parola che ha lo stesso significato fondamentale di

un'altra, formalmente diversa. Fondamentalmente "gatto" e "micio"

hanno lo stesso significato e dunque si considerano sinònimi; ma

"micio" si usa per un gatto al quale si vuol bene. Se si tien conto degli affetti, della cultura, della classe sociale, della situazione geografica, dell'epoca storica, della posizione professionale, due parole non

hanno mai lo stesso identico significato. Tecnicamente l' abbecedario è ben altra cosa dal sillabario, anche se parlando comunemente si può usare l'uno invece dell'altro, e tutti i vocabolari danno

"abbecedario" per sinònimo di "sillabario". Lo stesso si può dire per

"frate-monaco, tasse-imposte, destriero-palafreno, trottola-paleo"

ecc.


"Dizionario" è sinònimo di "vocabolario": il Devoto-oli ha due edizioni, una in due volumi pubblicata da Selezione, che si chiama Nuovo vocabolario illustrato della lingua italiana, una in un volume pubblicata da Le Monnier, e questa si chiama Il dizionario della lingua italiana.

Però, se ci ascoltiamo mentre parliamo, "vocabolario" è più facile,

"dizionario" è più sussiegoso. Se parlo in dialetto (un qualsiasi dialetto lombardo) posso dire "el vucabulari", non dico mai "el dissiunari" .

Cesare Cantù così ci parla degli insegnamenti del suo maestro di retorica:


Poesia, mi diceva esso, è favella degli iddii, e tanto miglior è, quanto

più dai parlari del profano vulgo si sprolunga. E prima quanto alle parole, tu non dirai affligge, cava, innalza, è lecito, spada, patria, la morte, la poesia; ma ange, elice, estolle, lice, brando, terra natia, fato,


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