1.8 Kiesler e il Correalism
Nel 1939 Frederick Kiesler scrive un articolo sull’Architectural Record in cui lancia il Correalismo. Si tratta di una teoria da lui messa a punto che si distacca dal funzionalismo e dalle fredde visoni dell’ International Style per propone un approccio che oggi definiremmo olistico, in cui si mira più alla realizzazione di un organismo complesso e alla effettiva interrelazione tra le sue parti che al disegno di una astratta composizione geometrica e dove, in base alla lezione del surrealismo, il visibile manifesta quell’invisibile che spesso sfugge ad una razionalità riduttivamente intesa. La formazione di Kiesler e' quella di un artista d’avanguardia. Cresciuto a Vienna, dove sostiene essere stato discepolo di Loos, e' influenzato dal neoplasticismo - ne abbiamo parlato in un precedente capitolo- e poi da Marcel Duchamp, da Breton e dagli artisti del suo circolo, personaggi che frequenta sia in Europa sia in America dove si trasferisce nella seconda metà degli anni Venti. Lui stesso, più che praticare in modo sistematico l’ architettura, e' scultore e non disdegna il design che però concepisce in senso plastico (una delle sue opere più celebri, un tavolino in due parti, del 1935-38, ricorda molto le forme di Arp). Nel 1942 allestisce a New York la galleria Art of This Century dove sono esposti i quadri della collezione di Peggy Guggenheim. Fedele ai principi del correalismo, secondo il quale contesto e opera devono relazionarsi, Kiesler disegna due diverse sale espositive: una per le opere astratte e una per le opere dei surrealisti. Nella prima i quadri, concepiti come oggetti free-standing sono disposti liberamente, fissati a terra e a soffitto mediante esili fili. Nella seconda sala i quadri sono, invece, disposti lungo le due pareti ricurve in compensato e distanziati opportunamente da queste mediante bracci orientabili che evitano l’altrimenti inevitabile interferenza tra curve e piani. Per quanto ciascuna in tema con il tipo di opere esposte ( un allestimento geometricamente più essenziale per l’arte astratta e uno più sensuale per l’arte surrealista), entrambi le sale liberano le tele dalle pareti e dalle cornici, facendole fluttuare per offrirle libere alla percezione. Le sedute, appositamente disegnate, evitano allo spettatore di stare scomodamente in piedi come nelle altre gallerie, possono essere orientate in diverse posizioni per permettergli diversi punti di vista e possono, all’occorrenza, fungere da supporti per altre opere. E’ previsto, infine, un ambiente cinetico dove la visione degli oggetti e' mediata da meccanismi attraverso i quali si possono osservare le opere come se fossero in uno spazio aereo, estraneo al contesto della galleria. Anche le luci e i suoni , in base al principio del coinvolgimento di tutti i sensi, contribuiscono all’effetto di insieme per la gioia dei visitatori e la disperazione della Guggenheim che alla fine, non potendo più resistere a tanta sollecitazione percettiva, deciderà di farne a meno.
Seconda parte, Capitolo 2: Risvegli: 1945-1955
2.1 Una nuova monumentalità
Nel 1943, ancora in pieno conflitto mondiale, il pittore Fernand Léger, l’architetto José Luis Sert e il critico Siegfried Giedion sono invitati dall’associazione American Abstract Artists a collaborare a una delle sue pubblicazioni. L’argomento – una nuova monumentalità- che i tre decidono di trattare, congiuntamente e ciascuno dal proprio punto di vista, e' per molti aspetti tabù, almeno tra i sostenitori del Movimento Moderno. Il fatto, poi, che ad affrontarlo siano tre personaggi impegnati in prima linea nelle ricerche d’avanguardia, rende l’operazione ancora più problematica e, allo stesso tempo, efficace. Léger, un pittore molto apprezzato da Le Corbusier, e' uno degli artisti postcubisti più noti a livello internazionale; Sert e' il promotore del GATEPAC ( Grup d’Aritistes i Tècnics Catalano al Progrés de l’Arquitectura Contemporánea), autore del padiglione spagnolo repubblicano per l’Esposizione Universale del 1937 dove venne esposto il Guernica di Picasso e, dopo la fuga negli Stati Uniti avvenuta nel 1939, uno degli esponenti di punta dell’università di Harvard; Giedion, infine, e' il principale teorico del Movimento Moderno oltre che segretario dei CIAM, i Congressi Internazionali di Architettura Moderna.
La progettata pubblicazione, forse per motivi contingenti dovuti al periodo di guerra, non vide mai la luce.
Nell’anno successivo le osservazioni di Giedion sono da lui stesso riprese all’interno del volume New Architecture and City Planning e suscitano numerose reazioni, tra cui la stroncatura di Lewis Munford sul New Yorker. L’idea di una nuova monumentalità a cui tornare, soprattutto dopo la tragica esperienza degli anni Trenta funestata dalla magniloquente retorica dei regimi fascisti e con ancora all’opera quella non meno disastrosa del regime staliniano, appare, infatti, come un passo se non fuor di luogo, perlomeno azzardato. E a poco serve l’assicurazione di Giedion che una nuova monumentalità, correttamente intesa, non può essere celebrativa nè ricorrere a clichés consumati ma deve incarnare, con forme originali, i simboli di una comunità democratica, completando a livello urbano una rivoluzione di contenuti e significati che il Movimento Moderno già negli anni Venti aveva cominciato con la progettazione di nuovi edifici e, poi, proseguito negli anni Trenta con la formazione di nuovi quartieri.
Il tema, terminata la guerra, è ripreso nel 1946 da una conferenza del Royal Institute of British Architects e nel settembre del 1948 dalla rivista Architectural Review con numerosi contribuiti, tra i quali spiccano quelli di Walter Gropius e del brasiliano Lucio Costa. Nell’Aprile del 1949, sempre sull’Architectural Review, interviene Lewis Munford con un articolo dal titolo Monumentalism, Symbolism and Style. Sostiene che l’epoca contemporanea non può produrre monumenti perché sono i simboli che sono venuti meno: “ un’epoca che deprezza i simboli e ne ha smarrito il significato – aggiunge- non riuscirà ad innalzare alcun monumento convincente”.
Il tema della nuova monumentalità ne presuppone un altro non meno impegnativo: la realizzazione di una città che vada oltre la semplice sommatoria di funzioni elementari quali la residenza, i luoghi dello sport e del divertimento, le attività lavorative; cioè di un organismo che, al pari dei migliori esempi del passato, abbia un centro nel quale gli abitanti si possano riconoscere e dove si possano incontrare. Su questo tema insiste Sert che nel 1944 pubblica un saggio dal titolo “The Human Scale in City Planning” nel quale sostiene il principio che le città contemporanee dovranno fondarsi su unità di vicinato dove gli abitanti abbiano facile accesso, anche senza prendere l’automobile, ai servizi principali mentre, allo stesso tempo, si dovranno contrastare i sempre le sempre più diffuse realtà suburbane che non usano la scala umana come “unità di misura”. Eletto nel 1947 presidente del CIAM, Sert aprirà il settimo congresso, che si svolge a Bergamo, facendo un paragone tra la scala umana della città lombarda e quella delle città moderne “vittime del caos che risulta dal loro sviluppo disordinato e dalla mancanza di pianificazione”. Nel 1950 convince Le Corbusier a dedicare l’ottavo congresso CIAM che si svolgerà l’anno successivo al tema “Heart of the City”, il cuore delle città. Comincia a prendere forma ciò che, più tardi, verrà chiamato l’Urban Design, un approccio ai problemi della città che non si limiterà alla rivendicazione di astratti standard ma avrà a cuore il suo concreto disegno e il suo effettivo funzionamento. A mettere a fuoco i termini del dibattito provvederà anche Giedion che proporrà, per esempio nel suo libro del 1951, A Decade of New Architecture, un approccio maggiormente basato sulla “immaginazione spaziale”.
Share with your friends: |