La Storia dell’architettura 1905-2008 Di Luigi Prestinenza Puglisi



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2.13 PAYS-BAS_prospectives


Il numero di settembre del 1996 de L’architecture d’aujourd’hui ha per titolo PAYS-BAS_perspectives. E’ dedicato agli architetti olandesi. A presentarli e' Bart Loosma: “ they take advantage of the current climate of international exchange generate in the eighties, but their ideas, their plans and their buildings can all be described without any qualifications as being original. They relate more to the theoretical developments that have taken place in the Architectural Association in London and American architecture faculties, like those of Cooper Union, Columbia, Princeton and Harvard.”38

Chi sono i protagonisti di quello che sarà uno dei fenomeni architettonici più rilevanti della fine degli anni novanta e che durerà sino ai primi anni del 2000? Sono gli architetti della giovane generazione formatasi sulla scia di Rem Koolhaas che con le sue provocazioni intellettuali e' il riferimento intellettuale e con il suo successo internazionale e' il riferimento professionale. Sono Wiel Arets , Ben van Berkel & Bos, Adrian Geuze & West8, MVRDV, Nox, Koen van Velsen,Ton Venhoeven C.S.

Wiel Arets si sta facendo notare per con opere molto asciutte e schematiche, precise come dimostrazioni matematiche che preludono a una ricerca che si orienterà verso il minimalismo.

Ben van Berkel e Bos hanno appena completato l’Erasmus Bridge a Rotterdam, Olanda (1990-1990), un segno urbano che , sebbene ricordi sin troppo quelli dello spagnolo Calatrava, avrà un notevole impatto nello skyline della città di Rotterdam. Sono inoltre autori di Villa Wilbrink ad Amersfoort (1993-1994) , una residenza unifamiliare dove applicano con successo un metodo progettuale basato sui diagrammi e cioè sulla trasposizione del programma funzionale in uno schema geometrico che poi viene, a sua volta, tradotto in forma architettonica. Metodo che applicheranno nella Möebius House a Het Goi, Olanda (1993 -1998). E’ una casa unifamiliare organizzata in forma di anello di Möebius per ottimizzare le relazioni tra gli ambienti destinati al lavoro e quelli dedicati alla residenza.

Adrian Geuze con West8 persegue una sperimentazione aperta ai temi del paesaggio naturale e artificiale, intesi non più come alternativi ma come sistemi strettamente interrelati e aperti alle mutevoli esigenze di chi li vive. Un esempio che va in questa direzione e' la Schouwburgplein a Rotterdam, Olanda (1990-1996), una piazza flessibile e in grado di ospitare numerosi eventi anche grazie ad un sistema di luci, montate su strutture articolabili in ferro, che possono essere manovrate a piacimento, in teoria anche dai cittadini stessi.

MVRDV si muove nella costante ricerca di una base razionale su cui fondare il progetto. Razionalità che però, in accordo con l’insegnamento di Koolhaas, porta sempre ad edifici complessi, spazialmente coinvolgenti e sostanzialmente anticlassici. Come nel caso parco De Hoge Veluwe, Olanda (1994-1995) dove gli apparentemente tradizionali padiglioni di ingresso sono ottenuti dalla deformazione e dal riaggiustamento in senso modernista del modello archetipico della casa-parallelepipedo con sovrapposti i due tetti a falda.

Di Nox L’ architecture d’ajourd’hui presenta il Water Pavilion for Delta Expo “Waterland” in Zeeland, Olanda del quale abbiamo già avuto occasione di parlare. Di Koen van Velsen e' il Megabioscoop a Rotterdam, Olanda (1992-1996), il cinema realizzato a fianco della Schouwburgplein e progettato sulla base dei principi dell’architettura diagrammatica. Infine, di Ton Venhoeven sono due fotomontaggi che mostrano i numerosi temi spaziali che si ritrovano anche negli edifici più banali.

Sebbene tra loro molto diversi, gli architetti olandesi condividono alcune linee di ricerca. Sono: l’interesse per un metodo razionale che sostanzia la progettazione, l’attenzione ai rapporti che l’architettura intesse con il contesto circostante e con il paesaggio, una spazialità articolata in grado di poter accogliere al suo interno eventi complessi, l’uso di materiali poveri di produzione industriale, un voluto calvinismo e brutalismo con conseguente scarsa attenzione alla preziosità della rifinitura e del dettaglio. Saranno queste preferenze che permetteranno loro di sfuggire da un lato alla eccessiva complessità dell’architettura hyperorganica degli architetti digitali e dall’altro dagli effetti di pura superficie dei postminimalisti. E che porteranno alla così detta landscape architetture, della quale ci occuperemo nel capitolo successivo.


2.14 Pro and Versus a New Architecture


Scosso dai nuovi fermenti – forme bloboidali, uso di nuovi materiali, utilizzo in facciata di grandi schermi di proiezione, smaterializzazione, effetti superficiali- il mondo accademico, reagisce: a volte scompostamente, accusando il nuovo di non essere altro che il prodotto di una civiltà che sempre di più insegue mode effimere; altre volte con considerazioni più pacate e ragionate. E’ il caso della rivista Harvard Design Magazine che nel 1997 dedica un numero monografico al tema Durability and Ephemerality. Kenneth Frampton, Luis Fernández-Galiano, Henry Petroski, Gavin Stamp lanciano l'allarme: il pericolo per la nuova architettura è la perdita di consistenza, di solidità. Il disinteresse per i valori tettonici, l'uso di facciate disancorate dalla struttura dell'edificio, la trasformazione dei prospetti in schermi sui quali proiettare immagini, l'applicazione cosciente di materiali deperibili nel tempo sembrano dimostrarlo.

Con i materiali tradizionali, quali il mattone, la pietra e il legno - afferma Frampton- si sono realizzati, invece, edifici che durano. Per esempio la villa Mairea di Aalto che dopo quasi sessanta anni si propone come una costruzione esemplare dove natura e cultura, presente e passato interagiscono sino quasi a sovrapporsi.

Il problema della durata e dei materiali è , conclude Frampton, un problema di architettura. Ritrovandone le radici negli anni Trenta quando Le Corbusier si dedica alle forme vernacolari e ai materiali tradizionali. Ma anche nella più tarda ricerca del greco Dimitris Pikionis, dei neorazionalisti italiani e, infine, degli spagnoli, Rafael Moneo in testa.

Su una posizione egualmente tradizionalista è Luis Fernández-Galiano che cita Loos, secondo il quale, mentre l' arte é rivoluzionaria, l'architettura è conservatrice. Troppi progettisti - denuncia Fernández-Galiano - teorizzano l'architettura effimera e preferiscono al concetto di firmitas, quello di venustas. Trasformando gli edifici in icone, ammirate e riverite, sperano che la società si prenderà cura della loro durata, a prescindere da qualsiasi costo di manutenzione e di gestione e cita come esempio l'Aronoff Center di Eisenman.

Interviene Gavin Stamp: molti edifici di Stirling, Foster e Rogers si sono rivelati fallimentari. Ma, grazie allo stato di superstar dei progettisti, la stampa ha taciuto dei difetti per prodigarsi, invece, in complimenti esagerati.

Di diverso avviso Ellen Dunham-Jones e Botond Bognar.

Per il primo il problema della durata, al di là di ogni considerazione architettonica, è oggi direttamente connesso con l'aspetto produttivo e quindi ha poco senso progettare edifici imperituri. Concorda il secondo che cita la realtà giapponese: il Nomad Restaurant disegnato da Toyo Ito nel 1986 è stato abbattuto nel 1989; la Casa a forma di U costruita, sempre da Ito, nel 1976 è stata demolita,la casa in Yokohama disegnata da Kazuo Shinohara nel 1984 è stata sostituita nel 1994; il municipio di Tokio di Kenzo Tange realizzato nel 1952 è stato abbattuto nel 1992. Per non parlare dell' Imperial Hôtel di Wright che nel 1960 dovette far posto a un albergo di una catena internazionale. Piuttosto che rimpiangere monumentalità e durata, è bene assumere nella propria poetica il segno della precarietà, soprattutto se questa permette all'edificio di fluttuare, grazie ai nuovi materiali sensibili e trasparenti, nella sempre più immateriale e dinamica realtà metropolitana. Kazuma Sejima, Kazuo Shinohara, Itsuko Hasegawa, Hiroshi Hara , Riken Yamamoto e soprattutto Toyo Ito dimostrano , allora, che è possibile realizzare capolavori senza essere reazionari o conservatori, sia pure nella migliore accezione loosiana del termine.

Ad affrontare il problema della durata è anche Domus, con un fascicolo monografico dal titolo Durability uscito sempre nello stesso anno. Non mancano interventi a favore, per esempio quello di Gregotti. Ma le conclusioni, alla fine concordano con le tesi di Botond Bognar: "la storia-afferma il direttore della testata, François Burkardt39- è un processo che non si ferma e non si può far tornare indietro"; la durabilità di per sé non è un valore. Interviene Pierre Restany: era la società fondata sull'eterno che aveva come ossessione il valore della permanenza e delle materialità; oggi, invece, si condivide la consapevolezza, maturata a partire dagli anni Sessanta, che ciò che é vero non è eterno. Pensiamo per esempio a Allan Kaprow che ha ridotto la pratica artistica all'atto spontaneo e volatile dell'happening e della performance. Oppure a Christo e Janne Claude che hanno realizzato opere destinate a durare per non più di una quindicina di giorni. O agli artisti della Body Art e in particolare da quella straordinaria indagatrice dei rapporti tra corpo e spazio che è la Marina Abramovic; a Yves Klein con i suoi pennelli viventi, la rivoluzione blu e gli immaginari voli che intensamente rendevano il bisogno di leggera immaterialità dell'uomo; all'arte povera con l'uso di materiali semplici, deperibili, consumabili. E infine pensiamo ai paesaggi fatti vibrare dal genio di Robert Smithson o antropizzati e concettualizzati dalla mano di Richard Long e degli artisti della Land Art. Il pericolo per la cultura contemporanea non è la freschezza dell'immagine, il suo darsi qui e ora ma, semmai, proprio il congelarla, mummificandola in una forma immutabile nel tempo. E l'ostinarsi a auspicare monumenti perenni in fondo è la testimonianza di una pervicace ottusità , che ci trasciniamo dai tempi degli egizi, che consiste nel voler a tutti i costi esorcizzare la morte e nel rifiutare il valore più profondo della vita che é la sua mutevolezza.




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