Per l’ ottava mostra internazionale di architettura di Venezia , svoltasi nel 2002, il direttore Deyan Sudjic evita scelte di campo. E piuttosto che parteggiare per una corrente architettonica o per un’altra, chiede ai principali studi di architettura operanti sulla scena mondiale di presentare i progetti in corso. L’ipotesi e' che se tra la fase di ideazione e la realizzazione di una costruzione passano numerosi anni, sicuramente tra le opere oggi progettate ci sono quei due o tre edifici importanti che segneranno il prossimo futuro. “ Se entro i prossimi cinque anni ci sarà un nuovo progetto con l’impatto popolare del Museo Guggenheim di Bilbao, si può essere quasi sicuri che ne esistono già i disegni completi, o una visualizzazione virtuale del percorso e uno o due plastici. Ovviamente non e' ancora finito. Forse non sono nemmeno iniziati i lavori sul sito. Forse i suoi architetti stanno ancora valutando la possibilità di costruire in acciaio o in calcestruzzo. In ogni caso il progetto esiste già come idea. E ancora se ci sarà un altro edificio d’esordio con l’impatto del Museo Ebraico di Berlino, il suo architetto avrà sicuramente in mano l’incarico”70.
Conseguentemente, Sudjic decide di organizzare la mostra per contenitori tipologici: l’abitazione, il lavoro, i negozi, le opere di culto o di rappresentanza. E lascia al pubblico il compito di trovare al loro interno - se lo vuole e se ci sono- i capolavori. La scelta, apparentemente neutrale, pone, in realtà, due questioni rilevanti. Denuncia innanzitutto la difficoltà dei critici a svolgere il loro lavoro che e' di orientare, attraverso scelte teoriche, il futuro. Il destino di un’opera, sembra invece dire Sudjic, e' sempre più inafferrabile ed e' orientato da fatti extradisciplinari – quali appunto la moda, la comunicazione, l’impatto con il pubblico e le grandi strategie commerciali- che oramai sfuggono alla riflessione. In secondo luogo la mostra registra, diventandone quasi l’apoteosi, la produzione cospicua di opere di buono e di alto livello architettonico prodotte dallo Star System. Una produzione che sicuramente incontra il successo del pubblico - tanto che la biennale di Sudjic supera di gran lunga le edizioni precedenti per numero di visitatori- ma all’interno della quale e' sempre più difficile individuare una reale capacità di incidenza sui fenomeni sociali. Molti i musei, molte le case unifamiliari di lusso, pochi i programmi in grado di cambiare la città, soprattutto quelle più povere e degradate. Che la biennale di Sudjic bypassandoli ponga problemi rilevanti lo si vede dalle due successive biennali, quella del 2004 diretta dallo storico Kurt Forster e quella del 2006 diretta da Richard Burdett. La prima può essere letta come una risposta sul ruolo della critica. La seconda sull’incidenza dello Star System all’interno dei più complessi fenomeni metropolitani che segnano il nostro secolo.
Per Forster, che titola la sua biennale Metamorph, e' essenziale ritrovare all’interno della nuova architettura alcune traiettorie che rendano conto delle trasformazioni in atto. Le rintraccia a partire dagli anni ottanta quando si delineano quattro linee: due vincenti rivolte verso il futuro e due perdenti attratte dal passato. Le vincenti sono di Frank O. Gehry e di Peter Eisenman, le perdenti di Aldo Rossi e di James Stirling:
“Aldo Rossi’s melancholy isolation of buildings beyond scale and site stands in contrast to James Stirling’s uninhibited contamination of Modernist and Constructivist ideas. Eisenman and Gehry deliberately looked beyond building as we know it, in order to develop architecture ex machina by the former, or, with the bold introduction of fish ( among other creatures) ex natura by the latter. At these crossroads of 1980, the trap was set, but it snared only the Postmodernists”71.
Per orientare il visitatore all’interno delle metamorfosi contemporanee, Forster abbandona i contenitori tipologici del predecessore, e ne organizza altri strutturati su parole chiave: Transformations, Topography, Nature of Artifice, Surfaces, Atmosphere, Hyper-projects. Ma la mostra risulta confusa se non altro per il fatto che i progetti che rientrano in una categoria potrebbero benissimo far parte di altre: si pensi a quanti sono le opere che, come ammette lo stesso Forster, “appear to draw on virtually all our previous categories: they conjoin site and structural frameworks into new topographies, creating variegated atmospheres by means of spaces and conduits which are fashioned from materials that unfold the impression of cyclical time”72.
Ciò che, comunque, emerge è un interesse crescente per la dimensione territoriale e geografica che già Bruno Zevi aveva individuato come nodale nel convegno Landscape and the zero degree of architectural language del settembre del 1997.
E’ in questa direzione che si potrebbe trovare una nuova chiave interpretativa, ricostruendo scale di valori in grado di orientare la ricerca critica. Si sceglierà invece, con la biennale del 2006, diretta da Richard Burdett, di azzerare le discussioni sulla forma per puntare all’analisi dei problemi urbani. La mostra, intitolata Città. Architettura e società, evidenzia le trasformazioni delle realtà metropolitane contemporanee: soprattutto del terzo e del quarto mondo. Ma così facendo, evidenzia proprio ciò su cui Sudjic aveva glissato: cioè che di fronte all’impetuoso attuarsi delle dinamiche sociali ed economiche, l’architettura firmata – proprio quella su cui si dilungano le pubblicazioni di architettura e su cui scrivono i critici- e' un oggetto in fondo trascurabile.
4.5 La crisi della critica
Insospettita da un lato dall’ottimismo dello Star System che si sottrae ai problemi strutturalmente più rilevanti e scossa dall’altro dalle riflessioni sociologiche che mettono in luce i limiti di questo approccio estetizzante, la critica stenta a trovare nuove ipotesi operative. A testimoniarlo e' la ridotta produzione di rilevanti testi teorici scritti a partire dal 2001 e la loro ancora più scarsa incidenza sul mercato, soprattutto se paragonata con quella dei libri pubblicati nel decennio precedente. A rendere lo scacco più bruciante e', infine, la crescita del numero coffee table books, in cui le immagini prendono il sopravvento sui testi e l’aspetto critico e' volutamente trascurato a favore di quello apologetico. La crisi investe anche le riviste di architettura, uno degli strumenti privilegiati attraverso il quale, negli anni ottanta e novanta, si era diffuso il pensiero architettonico.
La lenta agonia di The Architecture – una rivista che vantava un glorioso passato anche per aver inglobato dal 1996 Progressive Architecture - è emblematica di uno stato di disagio più generale.
Per molti la causa e' da attribuire a internet che con la diffusione tempestiva e gratuita di notizie e immagini sottrae alla carta stampata il ruolo di veicolo privilegiato della diffusione del pensiero architettonico e , di conseguenza, lettori e pubblicità. Ma, al di là di internet, vi e' anche una crescente difficoltà a caratterizzarsi con una propria e autorevole voce. Evitando di cadere negli opposti pericoli di diventare raffinate pubblicazioni utili solo a promuovere il già noto, attraverso i magnifici servizi fotografici selezionati e pagati dagli stessi protagonisti della scena architettonica, oppure a rifugiarsi in generiche riflessioni sociologiche, culturali o politiche. E’ quanto , per esempio, succede alla rivista Domus che nel settembre del 2000 e' diretta da Deyan Sudjic che la trasforma in una brillante vetrina del nuovo, per poi, con una repentina virata, essere diretta dal gennaio 2004 da Stefano Boeri che riduce drasticamente i progetti di architettura presentati in ciascun numero per far posto a inchieste, scritti filosofici, interventi in chiave geopolitica e indagini sullo stato delle metropoli contemporanee.
All’interno di un radicale ripensamento del ruolo e della funzione delle riviste di architettura può leggersi anche la metamorfosi di Archis. Il suo direttore Ole Bouman, nel 2005, cambia il titolo della rivista in Volume, coinvolgendo nel programma editoriale - caratterizzato dallo slogan di “To Beyond or not to Be” - AMO, la struttura di ricerca di OMA e C-LAB, The Columbia Laboratory for Architectural Broadcasting, diretto da Mark Wigley. Archis, ancora più drasticamente della Domus di Boeri, abolisce la presentazione di progetti per affrontare tutti quei temi che determinano la forma fisica del pianeta: guerre e catastrofi comprese. E non esita a pubblicare, nel 2007, un numero speciale dedicato a Dubai, la città Disneyland dove stanno avvenendo alcune delle trasformazioni più emblematiche dei nuovi modi di costruzione della città contemporanea e , dove e' interessato ad operare Rem Koolhaas, che con Bouman e Wigley e' uno dei Project Founders della rivista .
La sensazione e' tuttavia che Volume si rivolga a una ristretta minoranza di intellettuali e che le vendite, soprattutto tra i progettisti interessati alla concreta produzione di manufatti architettonici, siano in calo. La flessione delle vendite angustia anche le riviste che conservano un taglio tradizionale. Tanto che alcune devono chiudere. Tra queste vi e' L’Architettura, cronache e storia che cessa le sue pubblicazioni nel 2005, a cinque anni dalla morte del fondatore Bruno Zevi.
Altre – nonostante non vi siano dati ufficiali che lo confermano- sopravvivono con redazioni ridotte, numero di pagine limitato, economie di ogni tipo. Numerose si rinnovano con conseguente avvicendamento dei direttori73. In controtendenza due iniziative. Sono The Architects’ Newspaper e A1074. Operando con modalità comunicative nuove, entrambe le riviste rivendicano l’interesse per tutto ciò che si muove al di fuori del mondo dello Star System. L’una approfondendo sia in chiave giornalistica che teorica i problemi dell’area metropolitana di New York, l’altra cercando di capire cosa effettivamente avviene in Europa e, in particolare, in quelle sue aree periferiche che oggi – grazie alle nuove comunicazioni- vivono in una interessante dimensione in cui si incontrano, generando nuove sintesi, le problematiche locali e quelle globali.
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