4.6 Fine dello Star System?
Una generazione di architetti innovativi e' emersa dalla crisi del postmodernism, ha trovato nella mostra Deconstructivist Architecture un momento di coagulo, per poi dare vita negli anni novanta a una stagione creativa. Stagione che, però, a partire dalla data simbolica dell’11 settembre 2001, sembra essersi esaurita nel fenomeno dello Star System.
Si produce così un ciclo, che per quanto segnato da caratteristiche peculiari, e' ricorrente nella storia dell’architettura. Consiste nella nascita di un movimento all’inizio minoritario e visto con sospetto se non osteggiato che, poi, e' accettato sino a diventare dominante. La accettazione comporta, però, anche perdita di originalità e di carica innovativa.
Con la conseguenza che si registra una crescente fatica a trovare nuove ipotesi di lavoro. E non solo perché – come abbiamo già avuto occasione di notare- sono gli architetti stessi a uniformarsi diventando eclettici. Ma anche perchè e' il sistema che, assimilandole e banalizzandole, stempera le posizioni più innovative, soprattutto quelle che con più vigore si erano esplicitamente poste in posizione antagonista alla cultura dominante.
In questa luce può, per esempio, leggersi il libro di Rafael Moneo, Inquietud teórica y estrategia proyectual, en la obra de ocho arquitectos contemporáneos, forse una delle più importanti operazioni editoriali degli ultimi anni. Vi sono esaminate le opere di Venturi & Scott Brown, Stirling, Rossi, Eisenman, Siza, Gehry, Koolhaas, Herzog & de Meuron. L’analisi, però, evita di andare oltre le forme e di risalire alle diversità profonde che ne sono alla base e che investono l’aspetto ideologico.
Vedendo queste diversità come semplici strategie alternative per affrontare il problema della forma, Moneo, corre il rischio di avallare l’equivoco che ha portato allo Star System. E cioè l’ipotesi che i progettisti non siano altro che brillanti produttori di immagini inusuali e raffinate e che, proprio per questo, siano alla fine tra loro sostanzialmente intercambiabili esattamente come gli stilisti di moda: Armani o Versace, Siza o Gehry.
Per fortuna, per quanto lo Star System tenda all’omogeneizzazione, custodisce ancora al suo interno notevoli differenziazioni che non sono solo relative agli aspetti stilistici ma investono aspetti culturali ed esistenziali più rilevanti. E se non e' difficile trovarvi progettisti caratterizzati da posizioni formaliste o di retroguardia e altri le cui opere denunciano stanchezza creativa, non e' raro incontrarne altri ancora che continuano a muoversi con intelligenza teorica, ponendosi nuovi interrogativi. Tra le numerose opere di notevole interesse che sono state realizzate a partire dal 2002, ne elencheremo dieci per poi affrontare altri due fenomeni, in un certo senso laterali allo Star System: la supercreatività e l’ultraminimalismo.
4.7 Dieci Opere
LABAN DANCE CENTER
Dopo le prime prove, orientate in senso rigorista, abbiamo visto come i lavori di Herzog & de Meuron puntino a un sempre più attivo coinvolgimento dello spazio, ma non sempre con risultati convincenti. Il Laban Dance Center a Deptford, London (1997-2003) segna decisamente una svolta già a partire dall’atrio di ingresso dal quale si dipartono le rampe e una scenografica scala a chiocciola. Disposto su due piani, l’edificio e' concepito, alla maniera di Koolhaas, come una promenade architecturale che si snoda senza soluzioni di continuità lungo corridoi di forma leggermente irregolare. Da questi si intravedono gli spazi destinati alle varie attività, il panorama esterno e squarci di corti interne che, oltre a garantire l’illuminazione naturale, fanno traguardare la vista verso il cielo. Accattivante l’uso dei colori e dei materiali. Domina il contrasto tra il rosa shocking e il verde pisello, forse un omaggio all’architettura dell’ultimo James Stirling. Non e' assente il nero dato con effetto catrame usato da Koolhaas a Fukuoka o a Eurolille. Molti materiali, come il cemento dei soffitti, sono lasciati a vista, così come anche le canaline degli impianti, seguendo l’approccio un po’ calvinista e un po’ radical chic che e' la cifra del duo. All’esterno l’edificio, grazie al rivestimento in pannelli di policarbonato trattati con sfumature che vanno dal giallo al rosa al verde chiaro, assume riflessi di colore variabili con la luce del giorno. Da qui l’aspetto evanescente che contrasta con la concreta materialità del prato disegnato secondo disegni geometrici.
Il Laban mostra le possibilità di una sperimentazione che coinvolge spazio, involucro, colori e materiali. Su questa linea Herzog & de Meuron continuano con i sempre più numerosi incarichi che gli vengono affidati. Tra questi ricordiamo, per l’uso creativo della lamiera perforata, che produce una architettura vagamente wrightiana il museo De Young a San Francisco, California (1999-2005) e, per la stretta corrispondenza tra pelle, struttura, uso dei materiali e spazialità interna il Prada Aoyama Epicenter, Tokyo (2000-2003). Vi sono infine i progetti per gli stadi quali l’ Allianz Arena, Munich, Germany (2000-2005) che si trasforma in un gigantesco segnale luminoso a colori variabili e il nuovo stadio olimpico di Pechino, Cina (2002-2008) pensato come un canestro in calcestruzzo, un edificio quest’ultimo non privo di un certo autocompiacimento formale, ma in cui certamente e' abbandonata la dicotomia tra pelle e struttura.
TOD’S OMOTESANDO BUILDING
Anche Toyo Ito con il Tod’s Omotesando Building, Tokyo (2002-2004) punta ad un edificio in cui pelle e struttura coincidono. Coerentemente con il suo approccio organico, intreccia travi e pilastri come se fossero rami di un albero. Poi, per sottrarre al cemento pesantezza ricorre all’artificio di porre i vetri a filo di facciata, lasciando in cemento a vista solo la parte in esterno e pitturando di bianco tutte le altre facce. In questo modo, vista dalla strada, la struttura appare come una foglia sottilissima grigio argentata che dialoga con le luci della metropoli. Anche il cemento- sembra dire Ito- può vibrare, perdendo la pesantezza monumentale che caratterizza la produzione del suo rivale Tadao Ando. Come e' stato però notato da Wakato Onishi su Domus n.878, manca all’edificio di Omotesando una adeguata spazialità interna, come invece accade in quello di Prada di Herzog & de Meuron, che oltretutto si trova a pochi isolati di distanza. Ciò e' dovuto probabilmente a scelte commerciali della Tod’s che hanno imposto la divisione dell’edificio in una parte inferiore destinata alla vendita e una superiore agli uffici. Altri progetti realizzati da Ito sono giocati su una più convincente dinamica spaziale. Il Green Green, I-Project in Fukuoka, Giappone (2002-2005), per esempio, e' una piacevole promenade attraverso gli spazi interni e, poi, allo scoperto lungo le coperture ondulate trattate a verde. Vi sono, infine, opere che sperimentano nuove direzioni di ricerca, come e' il caso del Mikimoto, Ginza2, Tokyo (2004-2007), una torre che, a causa del suo colore perlaceo ( Mikimoto e' una ditta specializzata nella vendita di perle) e delle sue bucature a-geometriche, sembra un giocattolo trovatosi per caso all’interno di una della città più efficienti e competitive del mondo.
SEATTLE CENTRAL LIBRARY
La Central Library di Seattle, Washinghton (1999-2004) cerca di dare risposte a due domande. Quale e' il ruolo dello spazio pubblico oggi? Come può funzionare una biblioteca in una società che alla carta stampata ha affiancato numerosi altri media?
Per rispondere ad entrambe Koolhaas evita di seguire le strade già sperimentate con il progetto per la Biblioteca di Francia e per la Biblioteca di Jusseau, cioè rispettivamente l’edificio gruviera in cui la massa dei libri e' bucata dagli spazi destinati alle attività e quella dell’ambiente continuo in cui i piani dell’edificio sono inclinati e collegati tra loro senza soluzione di continuità. Propone invece un approccio intermedio. Da un lato alcune piattaforme specializzate per assolvere le funzioni tecniche della libreria: gli uffici, il deposito, le aule, i parcheggi. Dall’altro spazi in between destinati a diventare delle piazze pubbliche: al primo piano la living room ( una piazza al coperto che ricorda quella celebre del centro Pompidou a Parigi), poi la mixing chamber dove l’utente e' posto a contatto anche con gli altri media e, infine, ai piani alti la sala di lettura. Ad avvolgere le piattaforme e gli spazi pubblici provvede un involucro a forma di rete. Ha la funzione di delimitare un volume che, a differenza della gran parte degli altri blocchi edilizi di Seattle, ha forma decisamente non prismatica. Le piattaforme, infatti, non sono poste esattamente in corrispondenza l’una sull’altra ma sono tra loro scostate, per garantire la possibilità di collegamenti interessanti, anche visivi, tra una piattaforma e l’altra, tra uno spazio pubblico e l’altro. Una articolazione dinamica che può essere apprezzata anche dall’esterno grazie al fatto che la rete che delimita il volume dell’edificio e' trasparente – soprattutto la sera. Coerentemente con l’approccio paranoico/funzionalista di Koolhaas vi e' quindi una perfetta corrispondenza tra forme e funzioni, anche se poi il risultato e' un oggetto inquietante e inconsueto. Similmente inquietanti e inconsuete, ma sempre frutto di strategie progettuali coerenti, sono la Casa da Musica a Porto, Portugal (1999-2005), e il CCT Television Station and Headquarters a Beijng, China ( iniziato nel 2002). Il primo è un edificio monolite nel cui interno è ricavata una sequenza di spazi tra loro collegati, il secondo e' una coppia di grattacieli che, unita nel basamento e in sommità, ne determina l’immagine unitaria e la forma ad anello.
NEW OFFICES FOR CALTRANS
Ad indagare il tema dello spazio pubblico – questa volta posto all’esterno degli edifici- e' Tom Mayne con i nuovi uffici per la Caltrans a Los Angeles, USA (2004). L’edificio che sorge nella downtown si discosta dagli altri due sorti nella stessa area : l’auditorium Disneyland di Gehry e la Roman Catholic Cathedral di Rafael Moneo. Dal primo per l’uso di forme più squadrate, dall’altro per ricchezza inventiva. Lo schema che sceglie Mayne e' in realtà molto semplice: un corpo lineare più alto su cui si innesta perpendicolarmente uno più basso per formare una L che lascia un quadrante inedificato destinato ad ospitare una piazza. Afferma Mayne: “ We are not making an object, but a space”. E a conferma di questo obiettivo può leggersi la scelta di operare per grandi segni.
L’edificio principale e' rivestito sui lati lunghi da una lamiera, simile a quelle utilizzate per la Suntower di Seul e l’Hypo Bank in Austria, che - oltre a garantire l’ effetto insieme vibrante e metallico tipico delle architetture di Morphosis- ha la funzione di diminuire l’assorbimento solare. Inoltre e' svetrato sul lato nord, mentre la parete sud e' trattata con pannelli fotovoltaici. Con il risultato di una immagine frammentata per piani. A rendere vitale la piazza contribuiscono una gradinata per le riunioni all’aperto; gli spazi per le attività commerciali; interventi di macrografica – per esempio il numero civico dell’edificio scritto a caratteri cubitali-; e una installazione di neon dell’artista Keith Sonnier che, oltretutto, ha la funzione a far risaltare l’incastro tra i due corpi di fabbrica dell’edificio. All’interno, infine, l’accorgimento di creare ogni 3 piani le lobby per gli ascensori, di illuminarle attraverso un pozzo di luce naturale e di fare in modo che da queste sia possibile intravedere i vari dipartimenti al lavoro.
Morphosis si mostra così sempre meno interessato alla creazione di quei preziosi dettagli in stile decostruttivista che avevano caratterizzato i suoi primi lavori, per attivare una nuova strategia operativa che combina arte, public realm, ecologia e luce. Strategia che viene perseguita anche nello Science Center School a Los Angeles, California (1989-2004) e nel U.S: Federal Building in San Francisco, California (1999-2006) .
MILAN FAIR DISTRICT
Realizzata in tempi brevi – 24 mesi di cantiere- rispetto a quelli dilatati delle costruzioni italiane, il Milan Fair District, Milan Italy (2002-2005) è l’opera più importante di Massimiliano Fuksas. Occupa 210.000 mq. e ospita 20.000 parcheggi. A caratterizzarne il gigantesco disegno e' una passerella sopraelevata lunga oltre un chilometro e mezzo. L’effetto generale e' insieme di grande complessità e di semplice e chiara razionalità. A dare la prima impressione contribuisce il disegno della copertura vetrata della passerella che si rifà alle geometrie blobloidali. A controbilanciarla e' il fatto che l’organizzazione spaziale dell’intero complesso fieristico è molto semplice: un asse centrale rettilineo su cui si innestano otto pacchetti funzionali praticamente identici, ciascuno dei quali ospita quattro tipi di edifici: i grandi saloni espositivi, i ristoranti, le sale conferenze, gli spazi ad uffici. Vi e' poi un nono pacchetto atipico che contiene il Service Center e l’ Auditorium.
Più volte Fuksas ha dichiarato di ispirarsi alle sequenze cinematografiche. Ciò e' particolarmente vero in questo complesso dove il visitatore, condotto dai tapis roulant che lo portano da un capo all’altro della passerella, vede le diverse immagini dello spazio architettonico svolgersi davanti ai suoi occhi come scene di un unico film. A rendere accattivanti le quali contribuisce lo studiato intervallo che separa i punti di maggior interesse formale della copertura, il ritmico alternarsi dei pacchetti e, al loro interno, la scelta delle forme degli edifici – scatole opache o trasparenti ma anche leggeri dischi volanti- e, infine, dei colori e dei materiali. Contribuiscono all’effetto scenico il landscaping -che, attraverso l’acqua e il verde, ingentilisce l’impatto delle architetture- e la scelta di separare tra loro, attraverso dei vuoti, i volumi edilizi.
MADRID AIRPORT TERMINAL
Se la Fiera di Milano mostra che anche le strutture bloboidali possono, senza grandi problemi, essere inserite all’interno dei complessi edilizi di maggiore qualità che oggi si realizzano nelle principali metropoli mondiali, l’ Airport Terminal di Madrid, Spain (1997-2006) disegnato da Richard Rogers tenta una sintesi tra quelle che sinora sono state le tre declinazioni dell’High Tech: la tecnologica, la percettiva, la simbolica. L’obiettivo e' produrre un edificio che abbia rigore, umanità, capacità affabulatoria.
Per puntare a questa sintesi Rogers ricorre ad un modulo strutturale di notevole interesse formale che, caratterizzato da una copertura coronata da una morbida curvatura, allude alle immagini tipiche della tradizione locale: dalle colline del paesaggio iberico all’immagine della testa del toro sintetizzata dal gesto di Picasso. Mentre a bilanciare l’imponente ed efficiente immagine tecnologica degli esili pilastri in ferro, inclinati e vivacemente colorati, provvede il rivestimento delle volte con esili strisce di bambù. Una scelta questa , che, oltre a migliorare la performance acustica dell’edificio, rende gli spazi accoglienti e avvolgenti, stemperandone l’aspetto artificiale con una nota naturale.
PHAENO SCIENCE CENTER
Il Phaeno Science Center, Wolfsburg, Germany (2000-2006), il cui incarico Zaha Hadid ottiene a seguito della vittoria in un concorso internazionale, è la prima grande opera realizzata dall’architetto anglo-iracheno dopo interventi di dimensioni più contenute quali la stazione dei pompieri al Vitra o il Landesgartenschau. Il progetto è caratterizzato dall’ invenzione di strutture approssimativamente tronco-coniche rovesce in calcestruzzo all’interno delle quali sono ospitate specifiche funzioni. Ciò permette di avere un piano terra sostanzialmente libero da ingombri edilizi e piani superiori progressivamente occupati dalle porzioni tronco-coniche che le attraversano e che fungono da enclavi. E così mentre il piano terreno può diventare uno spazio urbano aperto al pubblico che, grazie al disegno ondulato della superficie, si caratterizza per una artificial topography, i piani superiori sono organizzati secondo aree specializzate ubicate all’interno di dette enclavi. Il risultato e' un insieme che, per la sua organizzazione a cluster, si pone come policentrico e dinamico. E che è vivificato da relazioni che legano tra loro anche livelli posti su piani diversi. A racchiudere l’intero organismo, che al suo interno ricorda la complessa geografia di uno spazio urbano, o anche un sistema multipolare produttore di energia, sono compatte pareti di cemento alleggerite da finestre e tagli inclinati. La scelta del cemento a faccia vista, come nel caso della stazione dei pompieri al campus Vitra, e' probabilmente dettata dall’esigenza di non complicare con ulteriori effetti, per esempio cromatici, quella che e' una già complessa macchina spaziale. E deriva anche dalla volontà di confrontarsi con la città esistente attraverso una massa unitaria. Un segno, scultoreo e per certi aspetti monumentale, che può essere paragonato al Forum 2004 Building a Barcellona (2000-2004) di Herzog & de Meuron o anche con i monoliti di Rem Koolhaas.
BOSTON INSTITUTE OF CONTEMPORARY ART
Lo studio Diller +Scofidio, nonostante sia attivo dal 1978, non vanta una produzione edilizia di rilievo. Le uniche due opere realizzate sono infatti la Brasserie Restaurant al Seagram Building di New York (2000) e la Slither Housing a Gifu, Giappone (2000). Lo studio tuttavia gode di una notevole notorietà a livello internazionale sia per la realizzazione del Blur allo Swiss Expo del 2002, sia per la produzione di performance che indagano le relazioni tra spazi fisici e spazi virtuali, tra corpo e mente, tra percezione e nuove tecnologie.
L’ Institute of Contemporary Art, Boston, USA (2000-2006) progettato con Charles Renfro, e' la prima opera non effimera, di un certo rilievo, progettata dallo studio. Concepita per fronteggiare lo specchio d’acqua del porto, vi si affaccia con un coraggioso sbalzo. Sbalzo che permette di collocare al piano superiore gli spazi espositivi e di lasciare libera al piano terreno una piattaforma, aperta al pubblico, che anch’essa affaccia sull’acqua. Così come vi affacciano anche l’auditorium e la mediateca. Quest’ultima e' forse l’elemento che caratterizza maggiormente l’immagine esterna del museo. Fuoriesce dallo sbalzo come un cannocchiale inclinato. E difatti all’interno il suo spazio si conclude con una vetrata-schermo che inquadra il mare trasformandolo in una immensa immagine astratta. La stessa inquadratura e' ripetuta dai salvaschermo dei computer posti in successione lungo i tavoli. Il risultato e' un luogo, sospeso tra realtà e artificialità, dove le immagini si moltiplicano in un gioco di riflessioni, e dove i confini dello spazio si perdono. Esattamente come succedeva nel Blur, a dimostrazione che le differenze tra l’architettura effimera e quella non reputata tale sono molto più labili di quello che si vorrebbe pensare.
OFFICE HEADQUARTERS IN NEW YORK
Di tutte le Star dell’architettura contemporanea, Gehry e' la più nota a livello mondiale. Tanto da essere – caso sinora unico della storia della cinematografia- il protagonista vivente di un film a lui interamente dedicato, destinato al grande circuito commerciale: Sketches of Frank Gehry diretto da Sidney Pollack (2005). Completando nel 2003 l’Auditorium di Walt Disney, Gehry dimostra che la sua strategia nel rapportarsi al contesto e' più solida di quella tradizionalista, tanto e' vero che l’edificio entra subito in sintonia con lo spirito della downtown angelena, diventandone uno degli elementi maggiormente rappresentativi. Tuttavia le numerose opere che negli anni immediatamente successivi realizza in giro per il mondo mostrano una certa stanchezza creativa. Il gioco delle lamiere sembra diventare fine a se stesso e la Marques de Riscal Winery Elciego, Spain completata nel 2006 e' un’opera sconcertante nei suoi eccessi decorativi. Quasi un tributo manierista a se stesso. Più convincente appaiono, invece, gli Office Headquarters a New York completati nel 2007, dove Gehry abbandona la linea di ricerca tendente alla composizione per volumi variamente articolati – la linea , per capirci, che va dal museo Vitra all’auditorium Disney al museo Guggenheim - per riprendere, semplificandola dei suoi eccessi barocchi, le ricerche sulla torsione messe a punto con Ginger & Fred. Il risultato e' un complesso edilizio che bene si confronta con le tematiche imposte dal blocco newyorkese e che riscopre il piacere di un gioco in cui si bilanciano semplicità e complessità.
MUSÉE DU QUAI BRANLY
Chi annulla il rapporto tradizionale che esiste tra edificio e strada e' Jean Nuovel con il Musée du Quai Branly a Parigi, (1999-2007). L’edificio infatti, invece di essere allineato, come ci si sarebbe aspettato, lungo i fronti stradali si ritira al centro del lotto per lasciare il posto a un giardino disegnato dal paesaggista Gilles Clément. E’ la natura – sembra dire Nouvel- che deve riprendere il sopravvento sull’architettura. E a sottolineare questa presa di posizione e' anche la scelta di trattare a verde alcune pareti del complesso con un omaggio alla tradizione francese dei muri verdi ma anche alla dis-architettura di Ambasz. Ma a differenza di quest’ultimo, che sommerge nel verde l’intero edificio, Nouvel non abbandona le masse compatte, i pannelli metallici colorati, nonché le non meno colorate scatole che fuoriescono dalla facciata ( sono le poche sale che, richiedendo un momento di concentrazione e di sosta, si estraniano anche fisicamente dalla continuità del percorso espositivo). Meno riuscito lo spazio interno dove l’idea di Nouvel e' di voler realizzare una “finctional map” che riproduce la continuità della superficie della Terra e che e' resa attraverso un percorso, a tratti inclinato, ininterrotto. Un’idea brillante – e che oltretutto abbiamo già incontrato, per esempio, nelle opere di Koolhaas- ma che trasforma l’esposizione dei 3500 oggetti appartenenti alle culture primitive del pianeta in un bazar di reperti caotico e a tratti confuso.
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