La Storia dell’architettura 1905-2008 Di Luigi Prestinenza Puglisi



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4.2 Tra nuvole e monoliti


Tra gli allestimenti dello Swiss Expo del 2002 ci sono il Blur degli americani Diller + Scofidio, il Monolith di Jean Nouvel e le torri di metallo degli austriaci Coop Himmelb(l)au.

Il Blur e' sicuramente quello che colpisce di più l’attenzione del pubblico e della stampa, tanto che diventa il simbolo della stessa esposizione. Si tratta di una struttura, posta a quasi 20 metri sul livello del lago e dotata di una piattaforma lunga circa 100 metri e larga 60, che non ha funzione alcuna se non produrre vapore attraverso un sistema di 29.000 ugelli dal quale fuoriesce l’acqua nebulizzata del lago. Il risultato e' una gigantesca nuvola, un puro effetto scenico che si può apprezzare sia dalla riva sia entrandovi direttamente dentro, dopo ovviamente essersi attrezzati con degli impermeabili.

“It’s incredible – ha affermato Ricardo Scofidio- the structure that’s required to make this nothing”. E in effetti, per realizzare la piastra, che si poggia a sbalzo su quattro esili pilastri occorre una ossatura in metallo fondata sui principi della tensegrity messi a punto da Buckminster Fuller, mentre per realizzare la nuvola e i giochi di luce si deve approntare una complessa strumentazione elettronica in grado di calibrare l’emissione del vapor acqueo in relazione alle condizioni climatiche e al tipo d’effetto voluto.

Potremmo liquidare il Blur come una piacevole trovata: “un edificio che non rappresentava niente, ma era un niente spettacolare” 66. Ma non e' così per una parte della critica, che interpreta questa opera sui generis, come una anticipazione delle potenzialità di una ricerca che combina natura e tecnologia, interattività e dimensione paesistica all’interno di quella poetica della dematerializzazione -del blurring appunto- sulla quale da tempo stanno riflettendo i giovani architetti digitali nonché altri quali Toyo Ito, Peter Eisenman e Coop Himmelb(l)au. E che, allo stesso tempo, sonda nuove dimensioni nel rapporto tra corpo e spazio: “ entering Blur will be like walking into a habitable medium-one that is featureless, depthless, scaleless, spaceless, massless, surfaceless and contextless. Disorientation is structured into the experience”67.

Se Diller+Scofidio puntano al disorientamento sensoriale e alla dematerializzazione dello spazio o, come sosterrà non senza ironia Ned Cramer alla gas architecture, Jean Nouvel , all’opposto, realizza all’interno del lago il Monolith, un gigantesco cubo rivestito in acciaio corten.

Non e' azzardato vedere, nella mossa dell’architetto francese – al di là dell’espediente espositivo di contrapporre un monolite a una nuvola- anche una scelta di campo: di attenzione per i temi della fisicità, della concretezza, della tattilità e di allontanamento da quelli dell’interazione digitale e della trasparenza – temi che, oltretutto, lui stesso aveva affrontato, precorrendo i tempi, rispettivamente con l’Institute du Monde Arabe e la Fondazione Cartier.

Ciò comporta anche un certa presa di distanza dalle ricerche dell’avanguardia. E un atteggiamento che piuttosto che scomodare le scienze della complessità e le geometrie non euclidee, si pone all’ascolto dei modi attraverso i quali l’uomo interagisce con il mondo delle cose: cioè attraverso i sensi in un rapporto fisico, istintivo con lo spazio naturale. E così facendo contrappone agli eccessi della tecnologizzazione la ricchezza inesauribile della materia, la sua intraducibilità in codice binario.

Le torri di Coop Himmelb(l)au all’ Arteplage di Biel mostrano una straordinaria abilità plastica diventata maniera, che ha perso la forza –anche urtante e sgradevole- che aveva caratterizzato le opere precedenti del gruppo austriaco, quali l’attico sulla Falkestrasse. Un simile cambiamento di prospettiva porta da un lato alla crescente accettazione da parte dell’opinione pubblica di composizioni architettoniche un tempo giudicate inaccettabili ma dall’altro alla progressiva riduzione di quella che era una ricerca d’avanguardia a un gioco formale.


4.3 Lo Star System


Se già nel 1993 Kenneth Frampton denunciava gli architetti mediatici che si spartivano la parte più interessante del mercato, a partire dal 1997 molte amministrazioni, sull’onda del successo del museo Guggenheim di Bilbao, ricorrono sempre più frequentemente allo Star System perchè si rendono conto dei notevoli benefici in termini di popolarità che può apportare la costruzione di un edificio disegnato da una grande firma.

Ciò porta alla creazione di una elite di progettisti che competono per incarichi sempre più importanti. E, come sempre succede quando si creano delle elite e un nuovo mercato, a una lotta senza esclusione di colpi per accedervi e, poi, per rimanervi.

Non e' difficile, ad uno occhio disincantato, vedere dietro la produzione di molti testi teorici, di dichiarazioni critiche, di rimandi filosofici, l’approntamento di brillanti strategie di giovani e meno giovani progettisti per accedere all’interno di questa cerchia ristretta di professionisti sui quali sono costantemente puntati i riflettori.

Inoltre la competizione per incarichi sempre più importanti è responsabile della superproduzione di progetti ad effetto e di architetture-sculture che tendono ad emergere dal contesto in cui sono collocate. Nota Peter Davey: “ We live in a world permeated by the cult of celebrity and dominated by the electronic media, which demand constant novelty. The more unusual the gesture, the more enhanced an architect’s brand. The cult of celebrity has been so successful that most of the limited international competitions are open only to a small group of celebrated architects – perhaps no more than 100- who are almost forced to become increasingly demostrative and outré to ensure that they retain their place in the hierarchy of the celebrated”68.

Esattamente come avviene per le automobili o per il vestiario dove e' sempre più difficile distinguere tra una utilitaria della Fiat e una della Renault, tra un paio di jeans di Dolce & Gabbana o di Armani, lo Star System e' responsabile anche di una crescente somiglianza tra i prodotti. E così, per esempio, il minimalista Perrault, con il progetto per l’ampliamento del teatro Mariinsky a San Pietroburgo, Russia (2003) disegna un edificio che ricorda le sperimentazioni sulle geometrie complesse. Renzo Piano con la KPN Telecom Tower a Rotterdam, Olanda (1997-2000) sperimenta i pixel dell’elettronica. Herzog & de Meuron con il Laban Center a Depfort, Londra (1997-2003) integra le ricerche sui materiali con una riflessione spaziale che ha più di un debito con Rem Koolhaas. Il tettonico Rafael Moneo con il Kursaal di San Sebastian, Spagna (1990-1999) punta sull’architettura trasparente.

La somiglianza tra i prodotti, oltre che a una scelta imposta dal mercato che tende a reiterare un repertorio di immagini giudicate vincenti, deriva anche dal crescente ruolo che hanno i backoffice. Le star, pressate dagli impegni di rappresentanza e promozione, dedicano sempre meno tempo ai progetti: a volte limitandosi alla stesura del concept, a volte accontentandosi di un generico controllo. Con il risultato che a gestire effettivamente il lavoro sono i partner o, ancora più spesso, giovani assistenti formatisi in facoltà universitarie e postuniversitarie imbevute di spirito eclettico e che sono invitati a progettare “alla maniera di…”. I risultati, anche quelli di ottima qualità, non possono non risentire di questa crescente spersonalizzazione.

La popolarità delle star porta inoltre, inevitabilmente, ad un atteggiamento ambiguo e, a tratti, elusivo rispetto all’innovazione. I protagonisti del dibattito architettonico, infatti, sanno che senza innovare saranno presto superati dalle nuove mode. Ma nello stesso tempo, che l’innovazione, per aver successo commerciale, deve essere più di forma che di sostanza, più dichiarata che reale. Insomma deve rientrare all’interno di quella generica retorica del nuovo che rende il prodotto vendibile. Il risultato e' che il progetto tende a esprimere, attraverso un concept, una filosofia di vita spesso estetizzata, che più che essere concretamente perseguita si offre come una proiezione metaforica, un sogno, un wishful thinking. In ogni caso il progetto punta sugli aspetti comunicativi invece che – come era avvenuto con il Movimento Moderno- su quelli tecnici, funzionali e sociali.

Questa dinamica, del resto, non vale solo per l’architettura, ma come ha ben messo in evidenza Yves Michaud nel libro, L’art à l’état gazeux, investe anche le altre arti. Tanto che oggi e' difficile distinguere tra performance artistiche – si pensi a quelle di Maurizio Cattelan, Vanessa Beecroft, Damien Hirst o Pipillotti Rist- e spot pubblicitari. E fa parte di un processo ancora più generale in cui le discipline abbandonano i loro saperi tradizionali tendenti alla costruzione di oggetti ben definibili per accedere a un universo, fatto di reciproche contaminazioni, dove a predominare sono puri valori relazionali veicolati dalle tecniche di comunicazione che , a loro volta, basano la loro efficacia sugli effetti speciali e sulla sorpresa. Cioè sulla moda. Ad avvicinare il mondo dell’architettura a queste dinamiche, provvede anche il sempre più stretto rapporto tra architetti e stilisti, che porta all’incarico per l’allestimento di negozi o di sedi , all’elaborazione di strategie d’immagine, o come nel caso di Koolhaas e Prada, di modalità alternative di concepire il rapporto tra lo shopping e lo spazio urbano.

Tanto che Miuccia Prada presenta i nuovi negozi come una opportunità “per ridefinire la cultura contemporanea e interpretare l’idea di shopping in modo innovativo e sperimentale”. E gli fa eco Koolhaas affermando che si tratta luoghi che danno alla gente la possibilità di non fare compere, di spazi privati ma pensati come pubblici per bilanciare la sempre più aggressiva appropriazione degli spazi collettivi della città da parte dei negozi e dei centri commerciali.

Inoltre, al giorno d’oggi, proprio per il fatto che stilisti e architetti non puntano le loro strategie di marketing sull’intrinseca della qualità dei prodotti ma sulla filosofia di vita che questi suggeriscono, rende le vecchie separazioni merceologiche desuete. Fendi e Armani firmano cucine e linee di arredamento e approntano negozi dove vendono libri e offrono da mangiare mentre Piano, Meier, Roges, Lynn non disdegnano di disegnare maniglie, elettrodomestici, orologi, servizi da te, caffettiere o di porsi come testimonial pubblicitari, come e' avvenuto a Fuksas con la Renault e a Foster con la Rolex.

Ma se un architetto vende un modello di vita all’interno del quale il pubblico deve riconoscersi – né più né meno di ciò che succede con una marca di blu jeans o di una vettura di lusso- la stessa organizzazione della produzione dello studio di architettura deve cambiare per essere meno centrata sugli oggetti e più sul mercato. Accanto a chi disegna l’edificio compaiono gli specialisti di marketing e di immagine. Oppure, come ha intuito Koolhaas fondando AMO, occorre creare una nuova struttura affiancata a quella tecnica. E così “while OMA remains dedicated to the realization of architectural projects, AMO applies architectural thinking in its pure form to questions of organization, identity, culture and program, and define ways - from the conceptual to the operative - to address the full potential of the contemporary condition”69. E così l’architetto non e' più, come accadeva in passato, il tecnico che dà forma a un programma dettatogli da un committente possibilmente pubblico, ma – esattamente come avviene per altri produttori di beni voluttuari che operano sul mercato- e' colui che, a partire dagli input che provengono dalle proprie analisi, crea, per poi soddisfarli, nuovi bisogni.



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