La Storia dell’architettura 1905-2008 Di Luigi Prestinenza Puglisi



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2.10 Aalto. Due capolavori


Dopo la guerra, Alvar Aalto e' invitato come visiting professor al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Affascinato dalla cultura tecnologica americana, ne avverte, allo stesso tempo i limiti: l’industrializzazione eccessiva, la standardizzazione, la disumanizzazione della produzione. Vede, invece, nella figura di Frank Ll. Wright una chiara sintesi, l’indicazione di una direzione verso la quale muoversi. E forse a Wright si ispira quando realizza la Baker House (1946-1949), un edificio destinato a dormitorio per gli studenti del MIT. La costruzione, realizzata prevalentemente in mattoni a faccia vista, si presenta con un doppio fronte: ondulato con una soluzione a doppia curva sul lato prospiciente il fiume, al fine di garantirne a quasi tutte camere il panorama; segmentato in una spezzata lungo il lato che affaccia sul campus dove si trova l’ingresso e dove , in alto, aggettano i corpi scala, disposti in sequenza e che spezzano in due, lungo la diagonale, il prospetto dell’edificio con una soluzione che sarebbe stata ancora più brillante se la parte superiore, invece che intonacata per ragioni di budget, fosse stata rivestita con piastrelle, come era previsto in fase di progetto. E’ interessante notare che sempre per gli studenti del MIT, Gropius, con il suo studio the Collaborative Architects, realizzano negli stessi anni (1948-1950) gli Harkness Commons, anch’essi destinati a dormitorio. La differenza tra i due approcci non potrebbe essere maggiore. Gli edifici di Gropius denunciano un approccio ancora legato allo stile Bauhaus, mentre la Baker House già prefigura nuove direzioni di ricerca, e non solo in senso organico: vi si può intravedere un cero gusto brutalista che sarà caratteristico di molte architetture degli anni Cinquanta in Europa e negli Stati Uniti.

Tornato in Finlandia, Aalto si trova alle prese con numerosi incarichi, numerosi dei quali ottenuti a seguito di concorsi di progettazione. L’opera più significativa di questi anni e' il centro civico di Säynätsalo (1948-1952). Si caratterizza per la semplicità dell’impianto a C che viene racchiuso da un corpo di fabbrica lineare antistante che così delimita una sorta di corte aperta tale da comunicare sia la sensazione di intimità propria di un edificio claustrale sia il senso di apertura desiderabile in una struttura pubblica. Sensazione, quest’ultima, sottolineata da una scala rivestita in granito e una d’erba, che si interpongono tra i due edifici – quello a C e quello lineare- e colmano il dislivello tra il terreno circostante, posto più in basso, e la corte, posta più in alto. A contrastare l’orizzontalità del progetto provvede la sala consiliare, posta sul terzo livello ( secondo rispetto alla corte). Conferisce all’intera composizione, anche grazie all’accorgimento di far confluire dissimetricamente le due falde del tetto verso l’interno, un aspetto decisamente pittoresco, quasi neo-medioevale; mentre dal punto di vista della percorrenza costituisce l’ultima stazione di una promenade architecturale che si snoda allo spazio esterno, alla corte e, poi, mediante una scala interna, alla sala consiliare. Disegnato con mano felice e leggera, il centro civico di Säynätsalo si fa notare per l’uso di tre materiali- i mattoni, il legno e il vetro- e per una serie di incantevoli dettagli, quali per esempio le capriate a ventaglio del soffitto dell’aula consiliare. Comunicano l’idea di una amministrazione pubblica poco istituzionale, per nulla burocratica, vicina al cittadino. Esattamente il contrario di quanto avviene in altri Paesi Europei e, soprattutto in Italia, dove l’immagine dell’istituzione pubblica e' ancora affidata a forme monumentali e a materiali, quali il marmo, usati retoricamente.



2.11 L’Italia tra organicismo, neorealismo e nostalgia della storia


Uscita a pezzi dall’esperienza della guerra, l’Italia si trova a dover fronteggiare la ricostruzione con una industria edilizia arretrata e un sistema politico-economico inidoneo a fare prevalere le ragioni della programmazione e dell’industrializzazione rispetto alle speculazioni della rendita fondiaria e dello sfruttamento di una forza lavoro abbondante e a basso costo. Gli stessi architetti, molti dei quali sono stati compromessi a livello ideologico con il passato regime fascista, sono refrattari alla tecnologia e alla razionalizazione e propendono per un’architettura celebrativa e monumentale oppure intimista e vernacolare: da qui un’edilizia anacronistica che non esita a usare tecniche desuete, con conseguente spreco di lavoro e di materie prime, e che, nei casi peggiori, indulge nella decorazione ed è allergica a qualunque ipotesi di normalizzazione e standardizzazione.

In questa luce, anche lo sforzo del Centro Nazionale delle Ricerche e dell’USIS di pubblicare nel 1946 il Manuale dell’Architetto curato da Cino Calcaprina, Aldo Cardelli, Mario Fiorentino, Mario Ridofi e Bruno Zevi appare quasi titanico: nonostante si tratti di un volume prammatico, attento alla realtà artigianale del Paese e certamente non rivoluzionario, appare, infatti, come un coraggioso tentativo di avvicinamento a un approccio sistematico “ redatto da italiani su modelli americani”.

A premere per una sprovincializzazione del clima culturale e' Bruno Zevi, tornato, con gli alleati, dagli Stati Uniti, dove si era rifugiato per sfuggire alle persecuzioni razziali e si era laureato ad Harvard con Gropius. Nel 1945 pubblica il saggio Verso un’architettura organica, che rilancia in Italia le figure di Frank Lloyd Wright e di Alvar Aalto e, nello stesso anno, partecipa, con Eugenio Gentili, Luigi Piccinato, Enrico Tedeschi, Cino Calcaprina, Silvio Radiconcini alla redazione di Metron , una rivista che ha il merito di rilanciare l’architettura contemporanea con servizi su quanto di meglio si viene realizzando in Europa, negli Stati Uniti ( tra i collaboratori vi e' anche Lewis Mumford) e in Italia, per esempio con il quartiere sperimentale QT8 realizzato a Milano su progetto di sistemazione urbanistica di Piero Bottoni.

Nel luglio del 1945, su iniziativa di Zevi, e' fondata l’APAO, l’Associazione per l’Architettura Organica. Riunisce i migliori architetti del Paese e dura sino al 1950. Tre i principi dell’associazione, come si evince dal testo della dichiarazione dei principi, apparso nel numero 2 di Metron: il rifiuto dei rigurgiti classicisti e stilistici per abbracciare l’architettura funzionale nella sua ultima evoluzione, cioè l’architettura organica; la consapevolezza che l’architettura organica e' una attività sociale, tecnica e artistica diretta a creare l’ambiente per una nuova civiltà democratica quindi diretta all’uomo e modellata secondo la scala umana e in antitesi il monumentalismo asservito ai miti statali; la fiducia nella libertà architettonica pur nei limiti tracciati dalla pianificazione urbanistica.

Nata con la funzione di fungere da elemento di aggregazione e di unificazione di un panorama nazionale diversificato, l’APAO poco riesce a mediare tra le differenti tradizioni e caratteristiche locali e soprattutto tra le due principali scuole: la milanese, più vicina al razionalismo, e la romana, più attenta alla materia e agli effetti plastici. Una differenza che emerge anche nelle opere più importanti del primo dopoguerra: il Monumento alle Fosse Ardeatine, realizzato a Roma da Nello Aprile, Cino Calcaprina, Aldo Cardelli, Mario Fiorentino e Giuseppe Perugini (1944-47) e il Monumento ai caduti nel campi di concentramento in Germania realizzato nel 1946 a Milano dal gruppo BBPR ( Ludovico Belgiojoso, Enrico Peressutti e Ernesto Nathan Rogers). Il primo e' caratterizzato da un pesante monolite che, quasi abolendo la legge di gravità, si libra, coprendolo, sullo spazio aperto nel quale sono disposte le tombe dei caduti, il secondo e' un aereo volume virtuale idealmente delimitato da leggere aste in ferro e esili pannelli, liberamente ripreso dagli allestimenti di Persico.

Tra i romani, sono soprattutto Mario Ridolfi e Ludovico Quaroni, a spingere per un’edilizia radicata nella tradizione storica e artigianale italiana. Entrambi propongono, per il concorso per il fabbricato viaggiatori della stazione Termini (1947), un atrio scandito da pilastri binati che sorreggono delle volte e che ricorda le forme dei grandi complessi monumentali dell’antica Roma. Entrambi collaborano ( insieme a numerosi e promettenti giovani: Carlo Aymonino, Carlo Chiarini, Mario Fiorentino, Maurizio Lanza, Federico Gorio, Sergio Lenci, Piero Maria Lugli, Carlo Melograni, Giancarlo Menichetti, Giulio Rinaldi e Michele Valori) al quartiere INA-Casa sulla via Tiburtina a Roma (1949-1954) nel quale sono riprese le forme dell’edilizia tradizionale, dei borghi, dello strapaese. Il quartiere, che più tardi sarà soprannominato dallo stesso Quaroni “ il paese dei barocchi”, rappresenta una definitiva presa di distanza dal razionalismo e dalla architettura organica e, insieme, l’accettazione del ritardo tecnologico italiano. Lo testimoniano la cura, ossessivamente manierista se non –appunto- barocca, dei particolari costruttivi in mattoni o in ferro battuto eseguiti con perizia artigianale, i tetti in tegole, l’estetica del frammentario e del pittoresco. Sono la manifestazione dello stesso atteggiamento populista messo in scena dalla contemporanea cinematografia neorealista: da qui la definizione di neorealismo architettonico.

Tra le opere migliori di questa tendenza, nelle quali la ripresa di etimi popolari rappresenta anche una presa di distanza dai più sofisticati ma decadenti valori figurativi dell’alta borghesia, è da annoverare il progetto per La Martella a Matera redatto nel 1951 da Quaroni, Luigi Agati, Federico Gorio, Piero Maria Lugli, Michele Valori: un borgo che ruota intorno ad alcuni edifici pubblici aprendosi alla campagna circostante e che cerca, attraverso una strategia rurale e anti-urbana, di compensare, con l’immagine rassicurante del villaggio, gli abitanti – sfrattati dai Sassi- per lo sradicamento subito. Vi sono poi il quartiere INA-Casa a Terni (1949) e il Piano INA-Casa di Cerignola entrambi realizzati da Mario Ridolfi, il quale, per meglio comprendere le esigenze dei futuri abitanti, non esita a trasferirsi in Puglia attivando una metodologia di lavoro sul campo che produce una sintassi architettonica tanto squisita nel suo recupero di tecniche artigianali quanto fuori dal tempo. Sempre di Ridolfi sono le Torri in viale Etiopia a Roma (1950-54). Si staccano dalla comune edilizia abitativa per l’organizzazione degli spazi condominiali, resi piacevoli anche grazie alla rotazione degli edifici rispetto alla giacitura della strada, e per la diversa colorazione degli intonaci di ciascuna torre rafforzata dall’uso di variopinte maioliche nei parapetti sottostanti le finestre.

All’interno dell’estetica neorealista possono essere ricondotti numerosi altri piani realizzati a seguito del primo settennio INA-Casa, il piano Fanfani diventato legge nel 1949 ed affidato ad Arnaldo Foschini, un architetto compromessosi con il fascismo, che però ha l’intelligenza di chiamare Adalberto Libera a dirigere l’ufficio tecnico, di incaricare Mario De Renzi, Cesare Ligini e Mario Ridolfi di elaborare progetti-tipo e di far affidare gli interventi ai più interessanti architetti della nuova generazione. Tra questi ricordiamo il quartiere San Basilio di Mario Fiorentino (1951) e il quartiere della Falchera a Torino di Astengo, Molli, Boffa, Renacco, Rizzotti (1950-51).

Se l’asse Quaroni-Ridolfi proietta l’architettura romana del primo dopoguerra lungo il versante neorealista, non mancano personaggi che si orientano verso altre direzioni. Tra questi il più dotato e' Luigi Moretti autore di tre case albergo a Milano (1948-1950), della palazzina del Girasole a Roma (1947-1950) e della Villa saracena a Santa Marinella (1954). Le prime due riprendono gli etimi razionalisti ma per metterli in crisi, attraverso un raffinato formalismo che non esita a lavorare sulla contrapposizione tra piani e volumi, tra superfici piane e tagli profondi, tra linee ortogonali e inclinate, tra il liscio e il ruvido. La terza e' un’opera giocata su generatrici curve che proietta Moretti nella ricerca sullo spazio un tema, che come testimonia lo stesso nome della rivista da lui fondata nel 1950 –Spazio- lo appassionerà sempre di più. Autore fuori dagli schemi e personaggio compromesso con il passato regime, tanto da essere stato arrestato tra il 1945 e il 1946 per attività filofascista, non godrà di buona critica. Sarà poco apprezzato da Bruno Zevi, che pur riconoscendone il talento, lo terrà a distanza e dai Milanesi che ruotano intorno a Rogers i quali lo accuseranno di formalismo modernistico. Mentre invece e' apprezzato dal critico inglese Banham che ne loderà l’approccio decisamente contemporaneo.

Vi sono, poi, le opere dei grandi strutturisti romani: Pier Luigi Nervi e Riccardo Morandi. Il primo realizza tra il 1948 e il 1950 il Palazzo delle Esposizioni di Torino che si caratterizza per sala rettangolare coperta da una volta sottile ondulata ad elementi prefabbricati che si imposta, per mezzo di tre ventagli di raccordo, su setti dalla forma aerodinamica. Dopo le autorimesse di Orbetello del 1935, e' la dimostrazione che l’ingegneria, quando si confronta con opere di grande scala, può produrre eccellente architettura. Il secondo, in questi anni, sta brevettando sistemi di precompressione del cemento armato che consentono di ridurre drasticamente le sezioni portanti. Serviranno per realizzare ponti, costruzioni industriali, centrali idroelettriche di grande arditezza tecnologica ed anche strutture cinematografiche quali il Maestoso a Roma, con una sala per 2600 posti, collocata a piano terra di un edificio per abitazioni (altre importanti sale cinematografiche, quali l’Augustus e il Giulio Cesare, erano state realizzate dallo stesso Morandi negli anni Trenta). Entrambi portavoce della grande tradizione ingegneristica italiana, Nervi e Morandi testimoniano che , anche in un paese tecnologicamente arretrato come l’Italia, e' possibile perseguire l’innovazione senza cadere nelle logiche dell’artigianato e dello strapaese. Prova ne sia che entrambi verranno chiamati per importanti lavori all’estero dove godranno di maggiore fama che in Italia: Nervi, per esempio, già nel 1953 sarà coinvolto nella progettazione della Sede dell’Unesco a Parigi.

Se il clima romano, pur con le eccezioni che abbiamo appena individuate, e' scisso tra la tendenza organica e il neorealismo populista, l’ambiente milanese si caratterizza per un approccio formalmente più severo ma non meno segnato da ansie storicistiche , cioè, in sostanza, dal problema di come superare l’algida astrazione dell’International Style per produrre edifici in grado di dialogare con la città costruita, con tutte le sue composite stratificazioni stilistiche e temporali. Leader indiscusso di questo filone di pensiero e' Ernesto Nathan Rogers, membro del CIAM, autore con il gruppo BBPR di molte tra le più importanti opere realizzate nel periodo, direttore di Domus dal 1946 al 1947 e dal 1954 direttore della rinata Casabella, ribattezzata con il nome Casabella Continuità per ricordare il legame tra la nuova pubblicazione e la precedente diretta da Pagano e Persico. Delle sue architetture, tra le quali spicca la Torre Velasca (1950-58) a Milano, parleremo nel prossimo capitolo.

Tra i progettisti di maggior talento dell’area milanese spicca Franco Albini, autore nel 1949-51 di un albergo-rifugio a Cervino dove sono liberamente riprese le forme dell’edilizia alpina per realizzare un’opera in grado di ambientarsi perfettamente nel paesaggio circostante; di un eccellente intervento di infill urbano con il palazzo dell’INA a Parma del 1950, che mostra come anche un edificio in cemento armato possa ambientarsi in un contesto delicato a condizione di trasformare i passi strutturali in ritmi visivi; di un elegante restauro a palazzo Bianco a Genova caratterizzato dalla sensibilità con la quale l’architetto riesce a valorizzare, attraverso il disegno delle vetrine, gli oggetti esposti; di un magnifico intervento nella cattedrale di San Lorenzo a Genova (1952- 1956) dove l’ambiente interrato assume un connotato magico grazie agli ambienti circolari che evocano gli antichi luoghi di culto.

Dotato di non minor talento, anche se spesso mortificato da un’eccessiva ansia storicista, e' Ignazio Gardella. E’ autore della elegante galleria d’Arte moderna di Milano (1954), un padiglione espositivo che si caratterizza per la levità della struttura e per il continuum spaziale. Celeberrimo e' l’edificio per impiegati della Borsalino (1950-52), una lama in mattoni, caratterizzata da uno slanciato corpo segmentato che culmina con un generoso cornicione. Da molti viene, e a ragione, interpretato come un atto di critica al modernismo a favore del recupero di un linguaggio in grado di dialogare con la tradizione. Esattamente come la ancora più celebrata Case alle Zattere sul Canal Grande (1954-58), di cui parleremo più diffusamente nel prossimo capitolo.

Inclassificabile sia all’interno delle tematiche romane che milanesi e' il fiorentino Giovanni Michelucci, l’autore della Stazione di Firenze che durante il fascismo aveva sollevato tante polemiche. Nel dopoguerra e' impegnato con la Borsa Merci di Pistoia del 1950, l’edificio di via Guicciardini a Firenze (1955-57) e il Palazzo INA a Firenze (1955-57). Ubicati in contesti storici delicatissimi, riescono ad ambientarsi felicemente grazie all’uso di materiali tradizionali e di volumetrie semplici e asciutte che, pur senza copiarle, ricordano quelle degli antichi palazzi rinascimentali.

Un cenno, infine, alla attività veneziana di Giuseppe Samonà. Eletto nel 1943 direttore dell’Istituto Universitario di Venezia, chiamerà a raccolta i più rappresentativi personaggi della cultura architettonica italiana, trasformando l’Istituto nel centro di elaborazione più importante della penisola. A Venezia insegneranno Giovanni Astengo, Franco Albini, Giancarlo De Carlo, Ludovico Barbiano di Belgiojoso, Ignazio Gardellla, Luigi Piccinato, Carlo Scarpa, Bruno Zevi. Architetto militante, Samonà e' anche autore, con Egle Renata Tricanato, della sede Inail a San Simeone a Venezia (1950-56). Insieme alla Casa alle Zattere di Gardella, alla Torre Velasca di BBPR e alla Bottega di Erasmo di Gabetti e Isola, sarà il manifesto di un approccio italiano all’architettura contemporanea che provocherà non poche polemiche.



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